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No Interview

No Interview – Giorgio Poi: dalle musicassette dei Nirvana a “Fa Niente”

Giorgio Poi ha esordito come solista lo scorso 10 Febbraio con “Fa Niente” (Bomba Dischi/Universal), dopo un passato nei Vadoinmessico, catturando immediatamente l’attenzione del pubblico con brani sognanti e con dei suoni che ci riportano negli anni ’70.

In questa chiacchierata sono andata a curiosare nel suo mondo, scoprendo particolari interessanti sul suo passato musicale e sul suo rapporto con l’Italia.

Qual è l’artista, o il gruppo, che ti ha fatto innamorare della musica?

I Nirvana, quando ero ragazzino. Mio fratello aveva una cassetta di quelle lunghe da 90 minuti che su un lato aveva “Nevermind” e sull’altro “In Utero”. Quando avevo 12 anni, lui ne aveva 14, ho trovato questa cassetta, l’ho ascoltata, e mi ha folgorato.

Se “Fa niente” fosse un romanzo che storia ci racconterebbe?

Sarebbe una storia abbastanza semplice; racconterebbe una giornata, probabilmente, la giornata di una persona che è in giro da sola per la città e considera vari aspetti della sua vita, della sua esistenza… e che ha molta paura di morire.

Mi ha stupito il fatto che tu abbia scelto come title track un brano strumentale. Quei suoni per te rievocano qualcosa di speciale?

Semplicemente non mi andava di dare troppa importanza a una delle canzoni. Quando scegli una canzone come title track di un disco è un po’ strano. Se invece scegli un brano strumentale, lasci molte più possibilità aperte e quindi il significato del disco non è il significato di quella canzone, ma rimane più aperto.

I suoni dell’album sono molto vintage, ma non sembri pescare dagli anni ’80, tanto in voga in questo periodo. A che epoca musicale ti sei ispirato?

Sono andato più sul decennio precedente, in realtà. È molto più ’70 il sound, soprattutto quello della batteria e del basso.

E invece sulla voce che lavoro hai fatto?

Sul disco non ci sono effetti, sono semplicemente due tracce di voce sovrapposte; ho registrato due volte la stessa cosa, così si crea quel suono che senti.

Ho letto che a un certo punto hai deciso di allontanarti dall’Italia, ma che in realtà una volta andato via ti è venuta nostalgia di casa. Cosa ti mancava della tua terra?

Non era proprio nostalgia, perché io stavo benissimo fuori. Sono stato fuori dall’Italia per 11 anni, benissimo, ho imparato un sacco di cose, ho scoperto un sacco di cose che non conoscevo. Mi è nata una sorta di ammirazione per l’Italia, più che una nostalgia, mi piaceva proprio guardarla da lontano, la vedevo sotto un’altra ottica e mi incuriosiva molto di più; mentre prima me n’ero sempre fregato, perché l’Italia era l’unica cosa che conoscevo, più conoscevo altre cose più mi guardavo indietro e mi sembrava una figata e mi sembrava figo venire da lì, mi sembrava bello venire da lì, era una realtà completamente diversa da quella in cui mi trovavo, per questo motivo mi sembrava una cosa esotica.

Come vengono accolti all’estero i musicisti italiani?

Alcuni musicisti italiani riescono a entrare in situazioni molto interessanti. Credo che quando un italiano canti in inglese abbia un accento molto riconoscibile e per qualche motivo gli inglesi questo accento non lo amano, almeno quando mi sono ritrovato a parlare con le persone mi hanno detto di non amare questo accento; però come musicisti siamo dei bravi musicisti, quindi girando per il mondo riusciamo a farci apprezzare.

Come stai vivendo questa avventura solista dopo il tuo passato coi Vadoinmessico?

Bene, è una cosa un po’ diversa soprattutto a livello mentale. Non ci si colloca all’interno di un gruppo di persone ma si pensa a se stessi come da soli. Mi sta piacendo, mi sto divertendo, sto andando in giro a suonare insieme a due ragazzi che suonano con me, alla batteria c’è Francesco Aprili e al basso Matteo Domenichelli; sono bravi, sono simpatici, stiamo bene insieme. C’è un aspetto che rimane, che è quello del tour in cui si sta insieme, ma poi l’aspetto della scrittura e della produzione musicale me lo vivo da solo.

Ti senti più esposto a livello emotivo o sul palco?

Non tanto, percepisco di più il fatto che, cantando in italiano, le parole sembrano avere un peso maggiore rispetto a quando cantavo in inglese, perché comunque pur avendo vissuto lì per tanti anni, anche quando canto in inglese ho un accento, quindi non tutto quello che dico è perfettamente comprensibile anche a un inglese. Prima c’era un po’ questa voglia di nascondere un pochino quello che si stava dicendo, mentre adesso non c’è, adesso i testi sono chiari e palesi, è chiaro il concetto e quello che sto dicendo. C’è questa diversità che mi rende un po’ più vulnerabile, un po’ più esposto, come dicevi tu.

La cosa più strana accaduta durante le registrazioni dell’album…

(Ride). Le registrazioni dell’album le ho fatte da solo come un cane, quindi niente di divertente. Ero solo io dentro una stanza, non c’era interazione, non poteva esserci nulla se non la mia ironia o qualche pensiero, che non ricordo neanche più.

Com’è andata quando, uscito dall’isolamento, hai cominciato a far ascoltare il disco?

L’ho fatto sentire ad alcuni amici inizialmente. Le prime volte ero un po’ curioso e un po’ preoccupato, se mi avessero detto “guarda, fa schifo” avrei lasciato perdere tutto, ma per fortuna sono stato incoraggiato subito e quindi ho pensato di poterci riuscire. Ho continuato a scrivere e ho finito il disco.

Pensi che i social facciano bene alla musica?

Penso che siano imprescindibili ormai, è una forma di comunicazione necessaria per poter fare musica, quindi non credo né che facciano bene né che facciano male. Se nessuno li avesse si tornerebbe alla comunicazione di un tempo, ovvero il contatto con il fan consisterebbe nel rispondere a qualche lettera ogni tanto o nel mandare delle fotografie firmate o cose del genere, che oggi risultano assolutamente particolari e strane; ma nel momento in cui i social sono diventati di uso universale, è bene utilizzarli, credo che sia utile.

Intervista a cura di Egle Taccia

Written By

Egle è avvocato e appassionata di musica. Dirige Nonsense Mag e ha sempre un sacco di idee strambe, che a volte sembrano funzionare. Potreste incontrarla sotto i palchi dei più importanti concerti e festival d'Italia, ma anche in qualche aula di tribunale!

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