Connect with us

Hi, what are you looking for?

The Brian Jonestown Massacre
The Brian Jonestown Massacre

No Review

No Review – The Brian Jonestown Massacre: uscito il nuovo album dal titolo: “Don’t Get Lost”

L’ultimo album dei The Brian Jonestown Massacre, formazione californiana che ha visto sin dal 1990 succedersi nella composizione decine di valenti musicisti, colpisce per la sua impronta sperimentale e per l’eterogeneità delle tracce. Allo stato attuale, l’ensemble è ridotto al solo leader Anton Newcombe (considerato uno dei guru della psichedelia) coadiuvato da collaboratori occasionali, il quale continua la sua missione artistica affacciandosi pure su territori più avant-garde. Sin da subito, si ha la sensazione di ascoltare qualcosa di complesso, lussureggiante, dalle radici che affondano nel meglio dell’indie anni ’90, ma con uno sguardo rivolto pure alla scena elettronica moderna.

L’intero album sembra letteralmente raccontare la storia di questa navigata band – il cui nome è un tributo al leggendario chitarrista dei Rolling Stones, Brian Jones – per approfondire la quale, i curiosi, potranno ricercare su youtube il noto documentario “DIG!”, premiato al Sundance Film Festival del 2004.

Tornando all’album di cui all’oggetto, che in realtà è un doppio, in un certo senso rappresenta la sintesi di quello che è stato il percorso artistico passato, presente e pure volto al futuro di Anton Newcombe. Registrato nel nuovo Cobra Studio a Berlino dello stesso Newcombe, l’album comincia con la traccia psych/shoegaze Open Minds Now Close, un quattro quarti condito da intrecci di synth, dove un incostante e filtrato vocal sembra scalfire lo spazio sonoro come unghie su una lavagna.

La seconda traccia Melodys Actual Echo Chamber, dimentica di quanto avvenuto nella prima, ci lancia in atmosfere downtempo, lasciando alla parte vocale soltanto qualche sussurro. C’è da chiedersi se il nome della traccia sia un riferimento esplicito alla cantautrice francese Melody Prochet, il cui nome artistico è Melody’s Echo Chamber.

La terza traccia, Resist Much Obey Little, rilancia il mood dell’ascolto sul rock per antonomasia, in un incalzante trittico chitarra-basso-batteria, dove la parte vocale in doppia polifonia ci rimanda a tessiture prettamente novantine. A seguire, un tuffo nella sperimentazione dalle sfumature dub, priva di linea vocale, con la traccia Charmed I’m Sure, a chiarirci le idee – qualora non lo fossero – circa l’eterogeneità dei brani dell’album.

Il brano Groove Is The Heart, come suggerisce il titolo, infonde all’ascolto un groove più canonico e schietto, con leggeri synth in background, e voci maschili/femminili che si alternano tra loro stessi e con una chitarra dal suono morbido; mentre, con One Slow Breath si torna su atmosfere downtempo, con un loop di piano incessante ed una voce enigmatica, che rimbalza tra un colpo di grancassa sintetica e l’altro.

A seguire, col brano Throbbing Gristle, la sinuosa voce di Tess Parks ci trascina senza possibilità d’appiglio in un fiume in piena sonoro con predominanza di chitarre sferraglianti, che si conclude poi con una sospensione in fade to black che letteralmente disarma l’ascoltatore.

Su Fact 67 si ritorna ad un groove con cassa dritta ed un interessante giro di basso, con una chitarra ora minimale ora più prominente, che s’alterna con la parte vocale ad opera di Anton.

Con la tranquilla Dropping Bombs on the Sun si sfocia nell’ambito dream/brit pop, probabile frutto dell’influenza della collaborazione all’album di Tim Burges dei Charlatans, sempre con la voce di Tess Park ad ammaliare l’ascoltatore.

A seguire, UFO Paycheck sembra sfornata su misura per una OST filmografica dal tema drammatico.

Poi, con la tredicesima traccia, ossia Geldenes Herz Menz, veniamo proiettati in un’atmosfera noir tutta da vivere con ansia, complici i sax riverberati in lontananza e le tastiere quasi impercettibili. Con Acid 2 Me Is No Worse Than War, l’economia dell’album svolta nettamente e risente delle influenze berlinesi – dove è già stato detto che ha sede lo studio di Anton Newcombe – così come pure l’ultimo brano Ich Bin Klang, ancor più sperimentale, collocato appena prima la più canonica e chitarrosa Nothing New To Trash Like You.

A questo punto, che dire? L’album merita parecchio e vale il denaro speso, così come vale il riconoscimento nei confronti Anton Newcombe, autentica icona vivente della psichedelia, il quale dagli anni novanta ha mantenuto a galla il suo progetto, sebbene costantemente polimorfe, rilanciandolo per quest’album pure verso nuovi orizzonti di ricerca sonora.

 

https://www.youtube.com/watch?v=xTxCzGsYGMo

Written By

Fabio è un informatico che è pure musicista. A volte dice che è un musicista che nel tempo libero fa l'informatico, mentendo. Crede fermamente che un critico musicale non possa esserlo fino in fondo se non conosce bene la materia, da qui la sua missione di recensire concerti.

Seguici su Facebook

Leggi anche: