Tra le voci più sensibili e raffinate della scena cantautorale italiana, Nicolò Carnesi torna a far sentire la sua voce con “Ananke”, un album che segna una svolta personale e artistica, in cui l’artista mette al centro il mito, per attraversare un’epoca a tratti così antica e lontana dalla nostra, riscoprendone l’attualità. Ananke è la dea del destino e della Necessità, che rappresenta la forza che sovrasta la volontà e, come gli antichi cercavano di sfidare il fato, così Carnesi, nelle otto tracce che lo compongono, ci parla della forza di opporsi a ciò che è prestabilito.
Dopo anni di sperimentazione e ricerca, Nicolò Carnesi ci invita in un viaggio intimo tra melodie avvolgenti e testi incisivi, nel segno di una maturità sonora che non smette di sorprendere.
In questa intervista, esploriamo con lui i retroscena della lavorazione del disco, le ispirazioni dietro le nuove canzoni e il significato più profondo di Ananke nella sua ricerca musicale.
Intervista a cura di Egle Taccia
Iniziamo dal titolo. Chi è “Ananke” per te?
Ananke è la dea del destino e della necessità e per me rappresenta quello che rappresentava anche per gli antichi greci. La necessità, quello che mi ha spinto a scrivere questo disco era duplicemente legato sia alla mia attitudine con cui mi sono approcciato al disco sia ai personaggi che vivono dentro al disco, che in qualche maniera sono artefici di gesta che poi finiscono sempre con lo stesso destino, con lo stesso fato, perché necessario.
Che rapporto hai con la mitologia e cosa ti affascina del mito?
Il mio rapporto è quello di un appassionato che è cresciuto in una terra piena di quelle suggestioni. Se penso alle prime gite scolastiche, ci portavano alla Valle dei Templi, a Taormina, a Segesta. Insomma, fa un po’ parte di me. Cresciuto, mi sono dedicato un po’ alla filosofia classica e alla mitologia e a un certo punto ho scritto questo disco. Quello che mi affascina è fondamentalmente il fatto che quelle che racconto siano ancora oggi storie rappresentative del nostro tempo, quindi, in quanto archetipe, riescono ad essere parte sia della nostra storia che del nostro presente.
In che modo hai fatto tue queste storie?
Le storie in sé non le ho fatte mie, sono storie così antiche e così tanto raccontate che mi sono semplicemente dedicato a creare delle suggestioni musicali adatte a raccontarle. Chiaramente nella forma canzone devi trovare dei compromessi, dei modi collaterali e personali per raccontare delle storie che sono più narrative, ma, se ci pensiamo, nella storia sono state messe spessissimo anche in poesia, in musica, quindi ho semplicemente cercato di tradurre attraverso il mio linguaggio musicale quello che è stato già detto e scritto.
Credi nel destino?
No, penso che sia tutto frutto del caos, però nel mondo immaginario e immaginifico abbiamo la possibilità di covare illusioni, speranze, di fantasticare su tutto quello che poi è collegato alla sfera umana e quindi per me diventa l’arte, il racconto, la musica, un modo per sfuggire a questo caos. Poi, nella vita, tendenzialmente sono molto pragmatico e penso che, nel momento in cui comprendi che le cose non le puoi conoscere, capisci anche che è inutile pensare a quello che può accadere, visto che non siamo in grado di sapere.
Che tipo di lavoro hai fatto sui suoni del disco?
Ho lavorato molto con le chitarre, i sintetizzatori, ho campionato vecchi vinili, è stato un lavoro molto eterogeneo in cui ho unito varie sonorità, poi ogni tanto trovavo nei vinili dei suoni che mi piacevano particolarmente, anche non necessariamente musicali, penso al canto di una balena che ho trovato a un certo punto e ho intonato con l’autotune. L’ho inserito dentro le canzoni, fanno praticamente un coro insieme a me. È stato un lavoro di ricerca che mi ha divertito molto, proprio perché ho potuto sperimentare con tutto quello che avevo a disposizione, che era limitato, e proprio per questo mi ha ispirato. Mi ha appassionato il fatto di dover cercare di cavare il massimo dal relativamente poco che possedevo, perché al giorno d’oggi i mezzi tecnologici sono tanti e ti permettono di avere vari strati di sonorità.
Lo definisci come un disco notturno. L’ispirazione viene a trovarti alla fine del giorno?
Sì, ma fondamentalmente sono io molto notturno, ho cominciato a creare le prime sonorità proprio la notte, queste lunghe suite che facevo quasi per meditare, per stare senza troppi pensieri e quindi probabilmente la notte ne ha influenzato le sonorità e infatti consiglio di ascoltarlo la notte, con le cuffie, o in viaggio, è anche un disco da viaggio, molte suggestioni sono nate mentre viaggiavo e poi di notte le mettevo in musica. Questo disco è nato durante un periodo in cui ho viaggiato tanto perché ero in tour.
C’è un brano a cui sei particolarmente legato?
No, il disco ha una sua omogeneità, un’interezza. Avrei potuto fare un’unica traccia, ma volevo raccontare meglio ogni singolo personaggio. Il disco mi piace nella sua interezza, secondo me ogni canzone vive anche grazie all’altra. Lo vedo come un unicum.



















































