Francesco Sacco sembra non avere intenzione di fermarsi. Dopo la pubblicazione nel 2023 dell’EP “B – Vita, Morte, Miracoli” e le date con il collettivo Cult Of Magic, una delle figure più interessanti della scena milanese è tornata a far sentire la propria voce nell’album “TI SOMIGLIA MA NON SEI TU”, dove l’individuale si mischia al collettivo, in un tentativo di darsi delle risposte al disorientamento creato dal mondo là fuori. Lo abbiamo incontrato per farci dire qualcosa in più.
“TI SOMIGLIA MA NON SEI TU” è la tua ultima impresa discografica, che hai presentato per la prima volta a Milano il 29 novembre in un release party a BASE. Com’è andata?
C’è stata la volontà da parte mia, dei ragazzi che suonano con me e anche di tutto il resto della “macchina” di fare immediatamente un live per presentare questo disco. Ci andava di suonarlo integralmente dal vivo, per offrire al pubblico contemporaneamente un qualcosa di più, ma anche un tipo di ascolto che non è detto che sia equivalente a quello che si fa poi in privato su Spotify o sugli store. Trovo che certi dischi acquistino un significato diverso se si ascoltano i pezzi in fila. Chiaramente è un’esperienza immersiva e un po’ più impegnativa, che richiede più tempo e che capisco perfettamente che per come è la fruizione della musica oggi sia poco comune.
Ci andava sicuramente di farlo a Milano sia per ragioni strategiche che per ragioni emotive, nel senso che è la mia città, vivo qui, scrivo qui da tantissimi anni. BASE è uno spazio col quale sto lavorando sia come Francesco sia come collettivo Cult of Magic. Abbiamo un po’ di collaborazioni e di progetti aperti insieme, è uno spazio molto interessante, banalmente a livello di acustica, perché la sala main ha i soffitti alti 40 metri, quindi è difficile farla suonare bene come un club insonorizzato, però è anche un posto che si porta dietro una storia. C’è un centro culturale all’interno del quale coesistono tante iniziative diverse, anche questa è una cosa che sicuramente preferivo al presentarlo in un locale più classico della musica. Secondo me è sempre interessante attivare dei luoghi di Milano utilizzandoli in maniera diversa.
Siamo molto soddisfatti di com’è andata, c’è stata una super affluenza, staff fantastico, pubblico fantastico ed è stato molto emozionante per noi suonare tutto per la prima volta dal vivo.
Considerando le tue influenze a livello di sound, credi che ci sia posto per la techno anche in luoghi diversi da quelli prestabiliti convenzionalmente, in un’ottica di decostruzione della cultura?
La techno è uno di quei generi che si porta dietro oltre che un’estetica musicale precisa anche tanta subcultura legata al club. È un genere che ho approcciato relativamente tardi, nel senso che io non vengo da questo ambiente, però frequentandolo e suonandolo anche con Cult of Magic sono entrato in relazione anche con tanti luoghi della techno, tante organizzazioni. Ho capito che si tratta di un sottogenere floridissimo, con delle dinamiche molto più sane che il pop. Danno davvero l’impressione di essere una grande famiglia internazionale, si conoscono un po’ tutti fra grandi dj, conoscono gli organizzatori delle venue.
Sicuramente è un esperimento interessante e particolare quello di slegare il sound e il prodotto musicale techno dal luogo preposto normalmente, cioè il club. Con Cult of Magic, che è il collettivo di performance art del quale faccio parte e con il quale ho un progetto di musica techno suonato dal vivo, la data più strana che abbiamo fatto è stata quest’estate a Bolzano all’interno di un festival di danza in un parco pubblico in cuffia. C’era un pubblico super eterogeneo, da danzatori delle compagnie a anziani che ascoltavano in cuffia scatenatissimi, dando anche un po’ questo sapore distopico di “gabbia di matti”. Io ero spaventatissimo dal fare questo esperimento, perché il discorso silent disco toglie molto il rapporto col pubblico. È un esperimento che, però, mi ha stupito in positivo, è stato interessante.
In generale riguardo alla mia produzione, invece, non è propriamente tecno, però ci sono molti brani che ci si avvicinano come sonorità. Questo nasce un po’ sia dal fatto che abbia iniziato a farlo con Magic, quindi sicuramente ricercare in quell’ambito lì mi ha influenzato a livello di sound, ma anche da quello che vedo essere una necessità del pubblico. Si cerca molto un’esperienza più ampia rispetto al semplice ascolto, quindi l’idea che il racconto di una mia canzone potesse essere rafforzato da un discorso musicale che – quando aveva senso, ovviamente – introducesse anche un sound che ti spinge a ballare, alla socialità, al
divertimento, mi interessava. Così facendo, si crea una dimensione molto diversa dal club, ma anche da quella del concerto classico, c’è maggiore interazione con il pubblico, che magari balla. Mi piace l’idea di riflettere sul pubblico e proporre un qualcosa che non snaturi quello che faccio, ma che offra la migliore esperienza possibile al pubblico.
Questa dissociazione dal sé che è al centro del tuo lavoro la vivi come qualcosa di personale o pensi sia un discorso più universale da applicare alla società contemporanea?
Abbiamo tutti bisogno della dimensione di svago, che c’è anche nel mio disco in realtà, però trovo personalmente molto difficile scrivere canzoni da cameretta vedendo quello che mi succede attorno. Trovo un po’ particolare che ci siano pochi autori che trattano temi importanti legati alla società, alla politica. Penso che sia un ruolo che sta molto ricoprendo l’hip hop, a differenza del cantautorato, nonostante specialmente in Italia sia un genere con una storia molto politica. Negli anni ’70 in Italia c’era la guerra civile, le brigate rosse, gli attentati dei fascisti dall’altra parte, il rapimento di De André, quindi c’era anche questa forte esigenza di un cantautorato politico, di un cantautorato sociale che parlasse di rivoluzione, che parlasse di società, che per me deve essere un po’ il ruolo di chi fa musica.
Sembra quasi che tu abbia voluto dare la voce alla tua angoscia e ai tuoi mostri, ma mettere tutto in un album ti ha aiutato a trovare delle risposte o ti sono rimaste solo domande? Che ruolo dai alla musica in questo senso?
Più che avere risposte, si tratta di raggiungere una situazione di quieta convivenza col mostro. Ci sono tante domande personali sulle quali sicuramente scrivere mi ha aiutato molto, ci sono, però, anche tanti temi più grossi di me sui quali non c’è possibilità di intervento e con i quali si deve per forza convivere. Questo credo che faccia un po’ parte del fatto sociale in generale, nel senso che per forza in qualcosa non ti riconosci, quindi per quanto possa essere incazzato per le guerre in corso, specialmente per quello che sta facendo Israele e per il fatto che il mio Stato lo stia finanziando, a un certo punto mi devo alzare lo stesso la mattina e rendermi conto che vivo a Milano e sono fortunato.
Ho avuto delle risposte vere e proprie, ma parlo di mie conclusioni personali che non riguardano il mondo esterno.
All’interno del disco, hai inserito gli audio del tuo amico Alex Lombardo. Qual è il tuo rapporto con lui e com’è nato?
Alex, come si evince dagli audio, è un pazzo furioso. Ci siamo conosciuti perché lui aveva un negozio storico di abbigliamento alternativo a Novara, in Piemonte, dove sono cresciuto. Ha quasi settant’anni ora ed è sempre stato un soggetto molto particolare. Allestiva le sue vetrine con ritagli di fogli di giornale, commenti all’attualità che faceva lui, infatti alla fine si andava nel suo negozio non solo per comprarsi le Converse, ma per chiacchierare, fumarsi una sigaretta, ascoltare un disco. Lui ha una sorta di forma di profetismo. Per assurdo non è una persona dell’arte, né una particolarmente istruita, ma ogni tanto manda questi audio tra il delirio e il consapevolmente geniale, dove sembra quasi un oracolo.
In questo viaggio sull’identità e sul riconoscersi, mi è sembrato che potesse servire sia a me che all’ascoltatore. È una specie di Virgilio che accompagna Dante all’inferno. Ho scelto gli audio che collegassero bene i brani, che guidassero e potessero mettere in relazione un brano col successivo.
Di Alex hai raccontato anche sul tuo profilo Instagram. È un po’ cambiato il tuo rapporto con la comunicazione per quanto riguarda i social negli ultimi anni? Pensi che sia ormai un dovere degli artisti utilizzarli per promuoversi o si tratta di qualcosa che fai spontaneamente perché ti piace?
Lo odio, ma lo faccio lo stesso. Sicuramente non è il mio, se non fossi un artista probabilmente avrei uno di quei profili con mezza foto e la home invasa di video di cani. In parte il social è interessante, perché dà l’impressione di essere molto democratico, ma non è vero, perché se parli di certi temi vieni tagliato fuori dal flusso. D’altro canto ho anche degli episodi positivi legati a persone conosciute sui social che poi sono diventate amiche o che hanno contribuito in qualche modo al progetto o al mio privato oppure ascoltatori che hanno scoperto la mia musica attraverso quel canale. In breve: bello, ma non ci vivrei.