Che Alfio Antico sia il dio del tamburo è universalmente riconosciuto, ma pochi conoscono la sua storia e il suo passato trascorso nella solitudine della natura selvaggia, una storia che somiglia tanto alle fiabe che ci raccontavano da bambini e che fortunatamente il prezioso lavoro di Giuseppe Attardi ha fatto venire alla luce nel suo libro di recentissima pubblicazione dal titolo “Alfio Antico – Il dio del tamburo. Storia di un pastore entrato nell’olimpo della musica”.
Con la maestria e la delicatezza che tanto apprezziamo di Attardi, possiamo finalmente avventurarci nel mondo selvaggio di Alfio Antico, per conoscere la storia di chi non si è arreso alla solitudine e a quel poco che la vita aveva da offrirgli e ha trasformato la sua passione, il suo gioco di bambino, in un capolavoro di arte e talento.
Intervista a cura di Egle Taccia
Hai di recente pubblicato “Alfio Antico – Il dio del tamburo. Storia di un pastore entrato nell’olimpo della musica”. In che modo la sua figura ha colpito la tua immaginazione a tal punto da volergli dedicare un libro?
È stata Carmen Consoli a introdurmi nel mondo di Alfio Antico invitandomi a seguire la lavorazione dell’album “Guten Morgen” nel 2011. Conoscevo Alfio di nome, per le sue collaborazioni, non lo avevo mai messo a fuoco come solista. Carmen mi incuriosì quando mi disse che “Alfio dovrebbe essere dichiarato patrimonio dell’Umanità”. Un concetto, quello dell’unicità, che poi mi avrebbero sottolineato anche Eugenio Bennato, Renzo Arbore, Vinicio Capossela, Cesare Basile, Maurizio Scaparro. In effetti, scoprii un artista unico, sottovalutato, con una storia incredibile, che il mondo doveva conoscere.
Sentivi la necessità di tributare l’arte di Alfio Antico, di fare conoscere la sua opera a un pubblico ancora più vasto?
Alfio è conosciuto e stimato, sia in Italia sia all’estero, ma, a causa della sua natura selvaggia e solitaria, ha sprecato molte occasioni per diventare una vera e propria star internazionale. Eppure, ha affascinato gente del calibro di Quincy Jones, Paco De Lucia e Wim Wenders, Peppe Barra e Maurizio Scaparro se lo contendevano. Questo libro vorrebbe rendere giustizia all’artista, mettendo in rilievo la sua unicità, appunto. Lui è la musica popolare.
Nella descrizione del libro ci tieni a precisare che non è né un romanzo né una favola, eppure la storia di Alfio Antico ha tanto di fiabesco, sbaglio?
Sì, come accennavo prima, la storia di Alfio sembra uscire da un libro di Verga o da una fiaba di Collodi. Dai personaggi dello scrittore catanese si distingue perché non si arrende alla Provvidenza, al destino, ma trova nella musica il riscatto dopo una infanzia solitaria, molto dura e drammatica trascorsa sulle montagne lentinesi. Dell’autore di Pinocchio ricorda Mastro Geppetto: i burattini di Alfio sono i tamburi, a cui dà voce e anima.
Qual è stata la scintilla che ha trasformato Alfio Antico “u picuraru” nel Dio del Tamburo?
La nonna, nonna Ciuzza, che gli suonava il tamburello per calmarlo, per farlo divertire. Il tamburello scacciava i mostri della solitudine e della paura. Il tamburo divenne per lui una sorta di coperta di Linus.
Come descriveresti la personalità dell’artista a chi si approccia per la prima volta alla sua arte?
Ancestrale, sanguigna, vulcanica, selvaggia. Unica e inimitabile.
Qual è stata la sua reazione quando ha scoperto la tua intenzione di omaggiarlo con un libro?
Veramente è stato Alfio Antico, molto timidamente, a propormi di scrivere un libro su di lui. Gli erano piaciuti alcuni articoli che avevo scritto su di lui, il mio modo di accostarmi al suo mondo. Inizialmente presi la richiesta con ironia, perché penso di non avere l’inclinazione a scrivere libri. Alfio poi tornò alla carica durante la lavorazione del disco “Trema la terra”. E tra una seduta di registrazione e una cena, cominciò ad accumularsi materiale interessante, che mi convinse che si poteva realizzare un lavoro originale.
Come definiresti il rapporto che Alfio Antico ha con i suoi tamburi?
Sono i giocattoli che non ha mai avuto da piccolo. I suoi burattini, che realizza lui stesso con la pelle di capra, intarsiando il legno con il coltellino. Vere e proprie opere d’arte di grandezze, forme e suono diversi.
Domanda Nonsense: Alfio Antico ama di più il suo gregge o i suoi tamburi?
Tanto “Nonsense” non è. Perché anche io me lo sono più volte chiesto. Era sempre più disponibile e felice quando rivangava il suo passato di pastore e parlava di pecore piuttosto che quando doveva ricostruire la sua carriera artistica. Penso che per lui, alla fine, siano la stessa cosa, perché la pecora gli fornisce la pelle con la quale fare il tamburo. Certamente il tamburo l’ha reso famoso. Come canta in una canzone del disco “Trema la terra”, «u tamburu fici grande, iddu fici granni mia».