Strano tipo, Archy Marshall aka King Krule, aka un’altra lunga serie di monicker. Due anni dopo l’acclamato ed eclettico “The Ooz”, complice la recente paternità, ci aspettavamo di trovare un’atmosfera più serena e distesa nella musica dell’ex enfant prodige londinese ma, come già avrete intuito, le cose non sono andate esattamente così.
“Man Alive!”, questo il titolo del quarto album di KK, è un lavoro che potrebbe a buon titolo diventare la colonna sonora dell’inquietudine contemporanea d’oltremanica post-Brexit: a caratterizzare il disco troviamo atmosfere desolanti e notturne, permeate da un sincero senso di smarrimento. I beat elettronici di Archy Marshall si sposano ancora con i più svariati stilemi musicali alternativi, concretizzandosi in un album spesso duro e di difficile ascolto, che si traduce tuttavia in uno degli stili più inconfondibili di questi ultimi anni.
Il folk e il rap bianco si sposano con l’elettronica, il jazz ed il noise in maniera unica, celebrando l’ideale incontro fra Kendrick Lamar, i rumorismi di Tom Waits e la desolazione degli Einstürzende Neubauten. Il risultato? Squisitamente ambiguo, con ogni canzone che sembra partire da un’ambiente circoscritto estremamente, straniante e claustrofobico per esplodere improvvisamente alla ricerca di spazi aperti, inseguendo l’alba dopo una lunga notte, attraverso le strade di una Londra insolitamente desolata.
“Man Alive!” sembra narrare la profonda solitudine interiore dell’uomo metropolitano contemporaneo, quella che esplode in una notte di pensieri in cui l’ipotetico protagonista di questi brani attraversa diversi luoghi di questa improbabile città (“Supermarché”, “Airport Antenatal Airplane”) interponendo una incolmabile distanza di sicurezza fra se stesso ed il resto dell’umanità. Il Re girovaga da solo, osservando trasognatamente le luci della città (“The Dream”) attraverso la caligine e i fumi dell’alcool (“Stoned Again”); egli talvolta si abbandona ad una dolce e composta autocommiserazione (“Perfecto Miserable”), ma puntualmente riprende questo viaggio, come un hikikomori cresciuto, che fa sì il suo ingresso nel mondo reale, ma pur camminando al suo interno pare continuamente assorto e protetto dalle quattro mura della stanza dei suoi incessanti e cupi pensieri (“Alone, Omen 3”).
Andando avanti lungo il percorso dissonante dei quattordici brani, si arriva finalmente ad intravedere la luce del giorno: è solo alla fine di questo sogno ad occhi aperti, in cui il deserto dell’anima si è perfettamente sovrapposto, assonnato, alle atmosfere della città, che potremo sospirare un “Man Alive!” che vale come un semplice “oh cielo” e come un’auto-affermazione della propria esistenza in questi tempi così confusi, tra scenari socio-politici sempre più irrazionali e pandemie che avremmo finora concepito solo nei disaster movie.
Forse non era questo ciò che cercava di trasmettere il sempre criptico King Krule con la sua voce cavernosa e il suo perturbante eclettismo musicale, ma certamente ci sentiamo di dire che il disorientamento trasmesso attraverso le canzoni di “Man Alive!”, opera la cui raffinatezza e arditezza si apprezzano dopo ripetuti ascolti, saranno ricordati come uno dei sottofondi più azzeccati per questa strana epoca in cui ogni certezza sugli ordini precostituiti e sul mondo in generale sembra essere svanita.