Poco più di un anno fa i Massimo Volume sono tornati con “Il nuotatore“, pubblicato da 42 Records, un disco vitale, unico, che segna la perfetta prosecuzione di una carriera lineare e coerente, sempre ricca di spunti culturali e mai limitata strettamente alla musica. Ne abbiamo parlato con Egle Sommacal, chitarra elettrica della formazione.
Intervista di Egle Taccia
Siete tornati a febbraio dello scorso anno con un nuovo album, “Il nuotatore”. Che bilancio fate del disco?
Il bilancio dell’album è positivo. Per noi è stato positivo sin da subito, nel senso che il disco, una volta registrato e sentiti i missaggi, ci soddisfaceva, era quello che volevamo fare. Eravamo molto incerti su quella che sarebbe stata, invece, l’accoglienza del pubblico e della critica, ma anche quella è stata positiva. Tutto è da inserire, ovviamente, in un contesto ben differente da quello in cui erano usciti i dischi precedenti, perché il disco precedente era di 6-8 anni fa, una vita fa, nel frattempo il mondo della musica rock era molto cambiato, e con lui il mondo dei concerti, il pubblico. Per cui, inserito all’interno di questo contesto nuovo, che ovviamente è un contesto un po’ limitante per i gruppi che fanno il nostro genere di musica, siamo rimasti soddisfatti, l’accoglienza è stata buona, alle persone che già ci conoscevano e conoscevano i nostri lavori il disco è piaciuto, forse abbiamo raggiunto qualcuno in più, che probabilmente non ci conosceva prima e ci ha conosciuti con questo album, per cui farei un bilancio positivo.
Questo lavoro è uscito in un clima politico e sociale di totale chiusura verso l’altro e parla di temi che sembrano ormai desueti, come quello della prudenza. Qual è il messaggio principale che vorreste far arrivare a chi vi ascolta?
I Massimo Volume non hanno mai portato dei temi sociali o politici all’interno dei loro testi, i testi sono sempre stati riferiti a delle persone, al fatto che le persone, dei singoli, dei soggetti, fanno fatica a trovare il loro posto nel mondo; si riferiscono a delle persone che vivono una marginalità che è al di là del contesto sociale o politico, come poteva essere quello di vent’anni fa o quello di adesso, ed è appunto una condizione di deriva, una condizione di perdita di una propria posizione nella quale credo che adesso sia facile per molti, ahimè, riconoscersi. Oggi è facile rispecchiarsi nella debolezza e nella fragilità di questi personaggi e nella difficoltà che hanno a vivere e sopravvivere nel contesto sociale in cui sono inseriti. Credo che questo sia il filo conduttore dei personaggi e delle storie di cui parla Mimì (Emidio Clementi).
Che cosa è successo al nuotatore del brano? Come mai all’improvviso la realtà gli è diventata così ostile?
Come molti sapranno, il testo di Mimì è ispirato ad un racconto di Cheever, è un testo che è ispirato anche a un film. Ci sono momenti della vita, dei momenti inspiegabili, dove sembra che vada tutto bene e all’improvviso la realtà ti appare in maniera differente, inizi a leggere le cose in maniera diversa, come quando tutto diventa molto precario, anche se sembra rimanere lo stesso, inizi a guardare la realtà in una maniera nuova. Potrebbe esserci anche un passaggio differente, all’opposto, a un certo punto ti pare tutto pieno di sole e pieno di luce, oppure quello che prima ti sembrava pieno di sole e pieno di luce ti appare, invece, buio ed angusto.
Vi siete presi molto tempo per pubblicare questo album e la sensazione che ho avuto, ascoltandolo, è stata quella di trovarmi di fronte ad un lavoro minuzioso. Una rarità al giorno d’oggi, in cui la fretta domina ogni settore.
I tempi dei Massimo Volume sono sempre stati dei tempi che assomigliano più a delle ere geologiche che dei normali tempi discografici. Dall’uscita del penultimo disco, da “Aspettando i barbari”, siamo mi sembra nel 2013, a cui ha fatto seguito una tournée, c’era stata anche una riproposizione di un nostro vecchio lavoro che non è mai stato inciso e che era “La caduta della casa Usher”. Ognuno poi ha pensato ai suoi progetti e alle sue attività come singolo e ai suoi affari personali, ma poi abbiamo sentito il bisogno di tornare assieme e di fare questo lavoro. Questo è per dire che non ci messo sei anni per registrare questo disco, ma l’inizio del lavoro è arrivato molto dopo. Per il resto abbiamo cercato di metterci il massimo dell’attenzione anche nei particolari, ma più o meno come abbiamo sempre fatto negli altri dischi. Più vai avanti e più acquisisci un po’ di mestiere, più stai attento a determinate cose, forse a discapito anche della freschezza che ti dà l’essere giovane. Quando si è giovani di solito si hanno anche più idee. Abbiamo cercato di fare un lavoro che fosse non un disco degli anni ’90, ma un disco che rispecchiasse il più possibile quello che siamo adesso. Ovviamente abbiamo un certo tipo di sonorità, che non intendiamo in nessun modo sconvolgere troppo per evitare di non essere più noi stessi, però abbiamo cercato in qualche modo di svecchiarci anche nella produzione, non per apparire giovani, ma per essere quello che siamo adesso, per non avere un distacco totale con il mondo che ci circonda. Ci spaventano un po’ le vecchie cariatidi, rimaste legate al fatto che in passato era tutto più bello, funzionava tutto e il nuovo invece è tutto da buttare via; essendo spaventati da questo tipo di atteggiamento abbiamo cercato degli elementi di novità, degli elementi di contemporaneità.
Non so se sia vero, in realtà, che le produzioni che ci sono adesso siano usa e getta. Sono le produzioni attuali, il mercato discografico è cambiato. In realtà noto che c’è una grossa attenzione nei confronti degli arrangiamenti, della produzione, dei suoni, anche verso quei prodotti che sono considerati più commerciali. Non sarei così tranchant nel definire la musica contemporanea come una musica usa e getta e poco attenta agli arrangiamenti, credo invece che ci sia, anche nella musica contemporanea, anche in quella che vende di più, una notevole attenzione nei particolari. È una musica minimale, quello sì, ci sono meno elementi, ma quegli elementi sono molto studiati e molto curati.
La vostra musica ha sempre rappresentato un punto di rottura rispetto a ciò che il mercato musicale di volta in volta offriva. Mi permetto di dire che siete stati alternativi anche all’ambiente alternativo che si andava sviluppando in quegli anni. Prima parlavamo di prudenza, ma musicalmente vi piace l’azzardo o mi sbaglio?
Sì, la nostra caratteristica poi alla fine è insita nel nostro DNA. Noi abbiamo sempre avuto un certo tipo di stile perché Vittoria suona la batteria così, Mimì recita e canta i testi e scrive in quel modo, suona il basso in quel modo, io suono la chitarra in quel modo e alla fine i nostri percorsi sono andati avanti facendo la nostra strada, cercando ovviamente di tenere, come ho detto prima, gli occhi e soprattutto le orecchie aperte rispetto a tutto quello che stava accadendo nel frattempo, ma continuando quello che era il nostro percorso. Il percorso degli altri può in qualche modo influenzarlo, arricchirlo, ma non portarci a prendere una strada aperta dagli altri e cambiare. Questa è una cosa che non riusciremmo mai a fare, insomma, esce fuori una cosa nuova e ci gettiamo e facciamo quella cosa nuova, che poi non è un’operazione spesso semplicemente commerciale, per accattivarsi le simpatie o i favori del pubblico, è che magari ti appassiona una cosa che è uscita e ti piace così tanto che vuoi farla anche tu. Questo mi sembra un qualcosa che a noi difficilmente potrebbe mai accadere, mai dire mai, ma più vai avanti con l’età più questa sensazione risulta rafforzata. Il fatto di rimanere in qualche modo non troppo lontani da quella che è la nostra essenza, da quello che è il nostro modo di lavorare, da quello che è il nostro suono, per quanto modificato, forse è abbastanza prudente come atteggiamento, invece. Non tentare mai un passo oltre a quello dove sai che metti i piedi al sicuro. Anche in questo caso può essere letto come una caratteristica positiva, come può essere la prudenza, ma anche come una caratteristica negativa, nel senso di non avere il coraggio di provare, buttarsi e magari sbagliare.
Tutti dicono che la chitarra sia uno strumento ormai passato di moda tra i giovani. Pensi davvero che sia così?
Dipende dai generi. All’interno della musica classica ha sempre avuto un ruolo abbastanza marginale, mi riferisco alla chitarra classica. Esiste come strumento, ma difficilmente ha un ruolo molto importante. Se pensiamo al jazz, se guardiamo alla storia del jazz, ci sono stati grandi chitarristi, però nessuno considerato al livello degli altri grandi musicisti della storia del genere.
Nella musica rock mi sembra che ci sia stato un grande ritorno. C’è stato un periodo negli anni ’90, prima del nuovo avvento del rock, in cui se suonavi la chitarra venivi veramente additato. Tutti suonavano i computer, l’elettronica, robe del genere. Dopo, pian pianino, è tornata ad avere un ruolo importante, vuoi che fosse come accompagnamento ai cantautori, vuoi nei gruppi rock, nei gruppi indie, anche lì unita con le altre cose. Ma non è un problema del mezzo che utilizzi, in ogni caso. Io sono dell’avviso che sei hai un’idea e se la musica è buona, poco importa che sia composta per un vibrafono, per una chitarra o per una tromba, non è quello il problema, il mezzo ce l’hai. La musica pop-rock è sempre cambiata in relazione agli strumenti che c’erano a disposizione. È nata la chitarra e la gente ha cominciato a suonare la chitarra; sono nate le tastiere elettroniche ed è nato l’elettropop, la musica elettronica; hanno inventato il computer ed è nata la musica fatta col computer. Questo è il periodo in cui, invece, cominciano a mischiarsi un po’ le carte, in cui si utilizza un po’ tutto. È nella sua natura.
Almeno nella musica pop-rock la chitarra mi sembra molto tornata. I soli ad esempio stanno sempre più scomparendo, li senti sempre di meno. Una volta un solo di chitarra era previsto. Questo ormai avviene da tanto tempo, anche perché accorciandosi i brani, soprattutto quelli di successo che durano sempre di meno, ormai siamo tra i due o i tre minuti, c’è poco spazio per metterci dentro un piccolo solo di chitarra. È vero che anche quelli erano andati abusati, c’era il solo che si chiamava da comodino, quello che è fatto così, lo prendevi e lo mettevi dentro, ma erano diventati tutti uguali. In quel caso è meglio che siano scomparsi (ride n.d.r.).
Mi sembra, però, che ancora ne abbiamo di musica per chitarra, ci sono ancora tanti chitarristi; è ancora uno strumento che affascina molti; è ancora uno strumento a disposizione, che con una spesa abbastanza piccola puoi utilizzare per suonare le canzoni che ti piacciono. Al posto di avere una chitarra immaginaria davanti allo specchio, spendendo poco si suona meglio con una chitarra vera. Le chitarre immaginarie davanti allo specchio, almeno per la mia generazione, sono state un must per mimare i propri beniamini.
Domanda Nonsense: Se ti dico “Massimo Volume e la sua band”, tu cosa mi rispondi?
È capitato più volte, ma ci sta, dai. Massimo può essere un nome e quindi poteva far credere che ci fosse un personaggio, un leader. Nel nostro caso è Emidio Clementi, ma immaginavano che si chiamasse Massimo Volume. È una cosa su cui non mi viene in mente niente, a parte la sua assurdità. Dici che sarebbe stato un bel nome per noi? Forse non era una cattiva idea. (Ride, n.d.r.)
Sai che a volte ci chiedevano “chi è Massimo tra di voi?”
Intervista a cura di Egle Taccia