I None Of Us sono una delle realtà più interessanti della scena alternativa, non solo catanese, che ha nel proprio DNA geni di metal, grunge e di tutto quel rock che affonda le proprie radici negli anni novanta. La band esordisce con “Further Hangin’ Menace” del 2006, missato da Kurt Ballou dei Converge e masterizzato negli Stati Uniti da Alan Douches, mentre il successivo “Vita” è del 2011, missato e masterizzato da Mike Major. Dopo una pausa lunga più di cinque anni, i None Of Us danno alle stampe per i tipi della This Is Core Records “Black Foundation”, uno di quei dischi che non passa inosservato.
Abbiamo incontrato il chitarrista Filippo Basile.
Dall’ascolto di “Black Foundation” sembra di ritornare ad un suono in cui si avverte nettamente un’impronta degli anni novanta (vedi alla voce Faith No More), epoca in cui le chitarre hanno riconquistato quella centralità occupata sino a quel momento dall’elettronica. Quali ascolti nel tempo hanno influenzato la vostra scrittura?
Ogni brano delle nostre composizioni è sempre partito dalla chitarra: che fosse un riff, una nota, una melodia, o la semplice idea di un suono, l’origine è sempre stata quella. L’elettronica è stata un elemento di abbellimento, a volte anche determinante, ma di certo successivo alla stesura iniziale delle composizioni. Se è possibile dire che quindici anni fa ci sentivamo influenzati da delle band in particolare (Faith No More e Deftones più di altri) oggi mi sento di potere dire che siamo influenzati da noi stessi. Usiamo il nostro linguaggio per dire cose che non abbiamo mai detto, usiamo la nostra estetica per comporre quelle canzoni che non fanno ancora parte del nostro lessico, del nostro ideale mosaico artistico. Ripeterci è una cosa che non ci piace, non ci interessa.
Nel vostro curriculum figura, tra le altre cose, anche la collaborazione con Kurt Ballou, chitarrista dei Converge, nonché produttore molto richiesto nel panorama post metal attuale, il quale si è occupato del missaggio del vostro primo album. Cosa ne pensi della qualità media delle produzioni dei dischi di oggi (penso alla cosiddetta “war of loudness”, cioè all’aumento del volume nel missaggio per migliorare fittiziamente la resa sonora)?
Ad essere onesto non mi capita spesso di ascoltare musica nuova, e quello che ho ascoltato non mi ha mai colpito troppo dal punto di vista del suono. Oggi chiunque con un discreto bagaglio informatico e tanta passione è in grado di registrare un album con il pc di casa. E l’utente medio non se ne accorgerà mai. Lo trovo abbastanza inquietante, e non perché si dà a tutti la possibilità di fare musica, quanto per il fatto che le competenze vengano appiattite. Non è un caso, infatti, che molti ingegneri del suono ricorrano all’analogico per registrare, nonostante questo amplifichi i costi in maniera esponenziale. Ad esempio, i Led Zeppelin registravano 40 anni fa dischi irripetibili e molti ingegneri del suono di oggi troverebbero decine di errori “grammaticali”. Però quelle produzioni rimangono una pietra miliare nella misura in cui hanno tracciato un linguaggio nuovo e potentissimo. Penso che ci si dovrebbe interessare un po’ di più ai contenuti di un disco rispetto al suono. E non perché mi piacciano i dischi che suonano male: chi fa musica dovrebbe sapere prima quale vestito mettere ad una sequela di accordi. Ti farò due esempi per essere più chiaro: “The Southern Harmony and Musical Companion” secondo disco dei Black Crowes (del 1992) è il disco perfetto, secondo me. Ottime composizioni con un suono perfetto, analogico, caldo, valvolare, tutto il contrario del suono dei Muse.
Dall’ascolto del vostro ultimo album ho percepito una sorta di visceralità e ferocia controllata, in un sound che ostenta una genealogia in cui si ascrivono band come Pantera ma anche Deftones. A cosa si deve questa coraggiosa attitudine hardcore così naturale, anche in considerazione degli angusti confini del mercato discografico italiano che non premia di certo la sperimentazione e la contaminazione?
All’età e all’esperienza maturata. In una pausa durante le prove per il breve tour che ci attende, ascoltavamo qualche brano del nostro primo album “Further Hangin’ Menace” (nello specifico “bleeding through e my sorrow”) e mi faceva sorridere riascoltare dopo anni quante cose riuscivamo ad inserire in una sola canzone. Oggi con lo stesso materiale faremmo tre canzoni. Abbiamo imparato a limare, ad essere essenziali ed efficaci, a sapere dire “questo sì, lo teniamo”, “questo no, lo buttiamo”. Prima andava bene tutto purchè assomigliasse a qualcosa di figo, oggi deve assomigliare a noi e deve resistere alla prova del tempo e di noi stessi. La ferocia non se ne è mai andata, anche nelle cose più meditative, più melodiche e lente. Credo dipenda dalla nostra attitudine live: non smettiamo mai di sentirci sul palco, anche quando non lo siamo, ed allora i volumi si alzano, le plettrate diventano più dure, e le urla più straziate. Ma è tutto naturale, non c’è nulla di preconfezionato.
I brani risultano immediati all’ascolto e destinati a catturare le attenzioni di un pubblico trasversale, nonostante la musica oggi sembra non essere più centrale nella vita delle nuove generazioni. Quanto è difficile secondo te fare musica ai tempi della rete e quali sono i benefici di internet per una band come la vostra? E cosa diresti ad un giovane di oggi per convincerlo ad acquistare un supporto fisico, rispetto all’ascolto di un album su youtube o spotify?
Penso che oggi sia molto facile fare musica. Tutto è molto più accessibile. Se vuoi fare musica basta un semplice telefono. Penso che la musica sia sempre centrale nella vita dei giovani, dei ragazzi, come degli adulti. Solo che questi ragazzi ascoltano musica veramente brutta. Ed il modo di ascoltarlo rispecchia quella musica: mordi e fuggi. Oggi si consuma tutto talmente velocemente che la musica contemporanea, quella commerciale intendo, viene composta proprio per essere fruita così, velocemente ed in maniera che nessuno si accorga subito quanto faccia schifo. Per rispondere alla tua domanda, non ci sono cose che si possano dire ad un ragazzo perché ascolti e quindi compri un supporto fisico, è un gioco a perdere. Quello non ti ascolta nemmeno. Ho appreso che in Inghilterra la vendita dei vinili ha superato (di 500.000 sterline) la vendita della musica digitale. Molti l’hanno presa come una svolta migliorativa, verso l’antico, l’analogico etc. Io penso, invece, che sia una notizia figlia dei nostri tempi: superficiale e grossolana. Mi piacerebbe sapere quanti impianti audio con il piatto sono stati venduti, nel frattempo, quanti ne sono stati recuperati, quanti cinghie e puntine sono state cambiate. Ciò che intendo dire è che comprare vinili fa molto figo, quanto fare uscire gli album in vinile. Ma vengono ascoltati davvero? La spesa inglese per le produzioni musicali è pari 4.500.00 di sterline: sono poche, molte? Secondo me, rispetto alla mole immensa di uscite discografiche, è semplicemente irrisoria. Ecco perché non riuscirò mai a convincere qualcuno a comprare un disco, perché non ne abbiamo più la cultura.
Come vedi la scena italiana e locale? I fasti di quando Catania era la Seattle del Sud sono, secondo te, definitivamente tramontati?
Non abbiamo mai vissuto tempi bui come questi, in Italia quanto in Sicilia. Vengono strombazzate come rivoluzionarie produzioni musicali che non hanno il minimo rispetto per l’ascoltatore. A volte ascolto cose che penso siano delle deliberate prese per il culo per chi consuma musica e mi trovo questa gente che riempie i club e io, sinceramente, non capisco. E se capisco, mi intristisco. Nello specifico, la scena a Catania non è mai esistita anche quando si diceva che ci fosse. Al netto di artisti che indubbiamente ce l’hanno fatta, parliamo solo di singoli, nessun movimento né genere a Catania, a mia memoria, ha costituito qualcosa di consolidato e duraturo, come il rap a Napoli, per esempio. A Catania si suonava e si suona ancora, ma come in ogni altra parte d’Italia.
So che siete in partenza per un tour che vi vede impegnati in tre date nel nord Italia. Per voi che avete una notevole esperienza dal vivo, quali differenze di feeling ci sono, se ci sono, tra il pubblico italiano e quello straniero?
Il pubblico straniero è molto critico. Anche se sei straniero non ti fa alcuna apertura di credito in bianco, se ne fotte se ti sei fatto migliaia di chilometri per suonare lì, non pensa che ci sia un automatismo tra tour all’estero e validità di un band. Ti ascoltano e ti guardano, se non gli piaci fanno altro. In Italia siamo più abituati ad essere terra di conquista e, quindi, appena sappiamo che c’è una band che viene da fuori (anche da fuori provincia) siamo pronti a stendere il tappeto rosso. Il pubblico italiano è meno critico.