È come lo stupore di fronte a un oggetto unico al mercatino dell’usato, è come la meraviglia dinanzi a uno scorcio inaspettato del paesaggio, è come la sorpresa nello scorgere l’arcobaleno dopo una tempesta. E se ne potrebbero aggiungere molte altre di similitudini per descrivere le sensazioni suscitate dall’ascolto di Senso, il nuovo lavoro di Guido Maria Grillo. Un disco fuori luogo e fuori tempo, proprio come lo descrive il cantautore stesso, e forse proprio per questo ancora più bello e necessario.
Uno di quei rarissimi casi in cui un disco non può definirsi se non come unico, e per questa sua eccezionalità rimarrà probabilmente un bene prezioso a vantaggio di pochi, ma quanto è valsa la pena metterlo al mondo?
Chiunque aspiri a creare qualcosa che abbia un senso dovrebbe mirare all’unicità della sua opera per il semplice fatto che la reiterazione è manierismo, mai arte.
Certo, non tutto ciò che è unico può essere definito arte ma certamente tutto ciò che si definisce arte è unico.
Io ho aspirato a creare qualcosa di Bello, o che potesse essere da me e dai più considerato tale, questa è stata la mia unica finalità, libero da ogni sorta di limite o strettoia di genere. È stato ambizioso quanto faticoso. La ricerca della Bellezza è un’operazione gravosa perché impone quello che il filosofo Galimberti definisce lo “smarginare”, cioè lo spingersi oltre i margini della ragione. Uscire dalla ragione significa semplicemente entrare nella follia. Ritrovarsi folli, ad un certo punto del percorso, provoca smarrimento. Ma questo smarrirsi insegna a conoscersi, a fare i conti con i propri fantasmi ed a comprendere le proprie debolezze, e quando si torna indietro, nel rigore della ragione, ci si scopre cambiati, forse migliori.
Questo disco, per me, è stato da subito prezioso, come suggerisci tu, e la velleità è che possa esserlo anche per altri.
Testi di profondo spessore, arrangiamenti orchestrali e la tua voce, evocativa e a tratti struggente. Quanto tempo e fatica hai impiegato per sviluppare ogni singolo dettaglio in maniera così minuziosa?
Probabilmente la drammaticità è frutto del fatto che l’intero disco sia registrato in presa diretta, voce compresa, tutti insieme appassionatamente nella medesima stanza. Era necessario condividere l’energia, farla fluire senza barriere, non lasciare nessuno impreparato dinanzi ad un’improvvisa impennata o ad una fulminea involuzione. Dovevamo essere un’onda, una sola grande onda, forse questa è la forza.
Ai testi dedico cuore e testa, più che tempo. Non sono il tipo di autore che lima fino allo sfinimento, ho poca pazienza, ma scarto molto facilmente. Mi lascio guidare dall’istinto ma concedo l’onore delle armi solo alle intuizioni che mi sembrano davvero valide. Non uso questa espressione a caso perché quella che nasce, nel momento in cui si scrive una canzone, tra cuore, mente, istinto e memoria è una dialettica tumultuosa, quasi una guerra. Il discorso vale, ovviamente, anche per la stesura della musica. Per gli arrangiamenti, invece, ho avuto splendidi collaboratori: le orchestrazioni sono quasi interamente di Roberto Esposito, musicista sensibile e talentuoso, tranne in due brani (“Canzone per me” e “Salsedine”), opera di un altro talento, Giovanni Rago. La conquista è stata riuscire a condurre entrambi nel mio mood, nelle atmosfere che avevo in mente. La scelta dell’orchestra da camera, infine, è stata da subito condivisa con Giovanni Sparano, patron di Barezzi Label e Barezzi Festival.
Nove brani che abbracciano e percuotono; intimi, delicati e al contempo estremamente crudi, diretti, privi di filtri. Come ti sei sentito una volta terminata la scrittura?
La scrittura, come dicevo, è un’esperienza turbante, o almeno dovrebbe esserlo.
Si comprende di essere sulla strada giusta quando ci si trova a piangere sul foglio o si è preda di incontenibile entusiasmo, oppure quando, di colpo, si abbandona il campo e ci si fionda fuori di casa, come se alla fuga dalla ragione debba corrispondere una esondazione fisica. Eppure non è detto che ciò porti ad un risultato adeguato allo scopo, anzi! Accade spesso, piuttosto, che si tratti di straripamenti della coscienza, o tuffi nell’inconscio (quella follia di cui parlavo prima), a cui non si riesca a dare nessuna forma che somigli vagamente ad una canzone.
Per questa ragione, essendo la mia attitudine alla scrittura decisamente frammentaria e tumultuosa, scrivo pochissime canzoni, davvero pochissime. La poesia, da un paio d’anni, è accorsa in aiuto, riempiendo gli interstizi lasciati vuoti da parole che non possono diventare canzoni. Come tu suggerisci, si tratta di canzoni intime, delicate, ma anche crude e violente perché la follia è indeterminata ed imprevedibile. Per poter fare qualcosa di Bello bisogna diventare folli.
“Senso” è la prima produzione targata Barezzi Label. Come ha preso forma questa nuova avventura?
Il Barezzi Festival è, ormai, una certezza assoluta e garanzia di qualità, ricerca, passione e vivacità. È un festival virtuoso ed in crescita esponenziale. È intitolato ad uno dei più decisivi mecenati che la storia abbia conosciuto, colui grazie al quale Giuseppe Verdi, nato da famiglia umile, poté studiare e diventare il Maestro che tutti conosciamo e, oggi, l’autore più eseguito al mondo. Il suo misconosciuto mecenate si chiamava Antonio Barezzi ed il festival nasce ispirandosi alla sua illuminata figura: ecco perché, dopo 12 anni di attività, sceglie di avviare un percorso di mecenatismo contemporaneo, coraggioso ed appassionato, quanto raro. Una grande fortuna, per me, e da qui anche la scelta di omaggiare questa storia esemplare con un versione di “Va, pensiero”. Servirebbero più mecenati, in questo mondo.
In che modo si potrà restituire un senso a questo mondo in caduta libera?
Viviamo un ampiamente annunciato, oscuro nichilismo. Il nichilismo, per dirlo con Nietzsche, si spiega con 3 asserzioni: manca lo scopo, manca il perché, tutti i valori si svalutano. Io provo a spingermi oltre per tentare di comprendere il nostro tempo: lo scopo, il perché e il sistema dei valori esistono e rispondono ad un’unica domanda, il Mercato. Esso è del tutto indifferente alle nostre vite, alle singolarità delle nostre esistenze e alle loro passioni; la sua tensione è soltanto il suo indefinito appagamento, la realizzazione di sé in uno sviluppo senza meta. Nell’età della tecnica, che punta solo all’efficienza, cioè al raggiungimento del massimo risultato con il minimo sforzo, di cui il mercato si serve, domina la legge dell’utile.
L’utile è del tutto insignificante sul piano del “senso”, serve solo alla realizzazione di qualcosa che a sua volta sia utile per qualcos’altro e così via, in una catena senza fine.
Immersi come siamo nell’età della tecnica e dell’utile, abbiamo perso qualsiasi capacità di attribuire senso alle cose.
La Bellezza è inevitabilmente “inutile”, cioè basta a se stessa e, quando interviene, rompe la catena dell’utile. Kant diceva che la Bellezza è senza contesto (cioè non è contestualizzabile, non si può definire) e senza scopo, quindi “inutile”, nell’accezione più nobile.
L’arte, la poesia, la Bellezza, l’Uomo con le sue passioni non c’entrano nulla con il mondo della tecnica ed è per questo che attengono alla dimensione della follia, cioè dello smarginamento della ragione.
Questa è la premessa necessaria per rispondere alla tua domanda: il senso, che ispira il titolo del disco, si potrebbe ritrovare soltanto diventando più folli, cioè tradendo il rigore della ragione che da altri è manovrata a proprio uso e consumo. Bisogna essere più puri, indipendenti e sinceri ma, per fare tutto ciò, occorre diventare più colti.
Nietzsche diceva che quando un popolo si fa gregge, ha bisogno di un animale capo e questa amara verità è, oggi, riscontrabile in ogni ambito, nella politica, nella cultura, nell’arte, nella musica.
Che tipo di set stai preparando per i live di presentazione del disco?
La dimensione live sarà fedele al disco: voce, quintetto d’archi, pianoforte, poche chitarre ed incursioni di beat elettronici. Restituiremo quella stessa energia ed emotività che danno senso alle canzoni.
Domanda Nonsense: a cosa paragoneresti l’odore sprigionato dalle pagine ingiallite di un libro?
A quello di un paio di scarpe di cuoio che si siano impregnate dell’umido di una corsa a perdifiato sotto la pioggia alla scoperta del mondo.
Intervista a cura di Cinzia Canali