Con il loro nuovo album “Shine” i Neko at Stella propongono un sound duro, crudo, ma di grande intensità, tutto made in Italy. Per saperne di più abbiamo incontrato la band italiana a cui abbiamo chiesto di più sul loro ultimo lavoro: un album da ricordare.
Neko at Stella, la prima domanda che vorrei fare è proprio sul vostro nome: da dove proviene?
GLAUCO: è una storia un po’ strana e pure banale: avevo in mente da un po’ la parola giapponese “neko” e mi sarebbe piaciuto usarla per il nome del progetto che stava per nascere, ma non sapevo ancora come. Durante un viaggio a Madrid, visitando un museo, ho visto un quadro nel cui titolo (che non ricordo, come non ricordo l’autore né cosa rappresentasse…) c’erano le parole “at stella”, e subito ho pensato che Neko At Stella suonasse bene e potesse essere un nome interessante.
“Shine” è un disco di una maturità sconcertante e di uno spessore internazionale. Come giudicate lo stato di salute della scena italiana del rock cosiddetto “alternativo”? E, secondo voi, ha senso ancora parlare di una scena alternativa rispetto a quella mainstream?
GLAUCO: innanzitutto, siamo felici del vostro giudizio sullo spessore del nostro album! E’ importante per noi, e il fatto che si possa considerare di livello internazionale ci riempie di orgoglio!
Personalmente credo che a livello mainstream, a parte qualche vecchia gloria che artisticamente vive di rendita, il rock in Italia sia praticamente morto.
Considerando la scena “alternativa”, la situazione mi sembra migliore. Certo, grazie agli innumerevoli canali attraverso i quali chiunque può condividere la propria musica, l’offerta è così ampia che ritengo molto difficile che qualche nuovo artista/band rock possa raggiungere la notorietà delle storiche band dell’indie-rock italiano. Si stanno sviluppando tante piccole scene diverse, tante piccole nicchie in cui poter dare libero sfogo alla creatività senza preoccuparsi di quanto la propria musica possa essere “commerciale” (tanto i dischi non si vendono più comunque) o “di facile comprensione”, e questa è una cosa molto bella.
ROBERTO: il cosiddetto rock “alternativo” credo goda di ottima salute, ci sono e continueranno sempre a nascere band con una proposta artistica differente da ciò che tutta l’artiglieria mediatica generalmente propone. A mio avviso sì, ha ancora senso parlare di distanza tra le scene alternative e mainstream: non tanto per i numeri e la visibilità che sono davanti agli occhi di tutti, direi più per un discorso di generi e categorie estetiche, che per motivi diversi sono quasi sempre destinati ad essere relegati all’interno di un sottobosco. Purtroppo non posso fare a meno di notare che gli spazi destinati a questo tipo di proposte negli ultimi tempi si siano drammaticamente ridotti.
JACOPO: Anche secondo me continua ad avere un senso parlare di rock alternativo, che forse non è neanche troppo nel sottobosco; certo, in termini di vendite non è possibile fare un paragone, però è un mondo musicale molto più raggiungibile e conoscibile rispetto a qualche anno fa, e credo sia una cosa buona. Ci è capitato di suonare con gruppi veramente interessanti, alcuni dei quali con un seguito più che buono, che di certo non si è creato grazie a passaggi in radio commerciali o a ospitate tv. Il rock alternativo è vivo e vegeto!
Le linee armoniche dell’album e i tratti decisi di alcuni passaggi mi fanno pensare a due diverse tipologie di artisti, emblemi degli anni 90: Sonic Youth e Kyuss. Anche se ritengo che etichettare la vostra musica significherebbe limitare le vostre capacità di andare oltre i limiti dello stoner, del blues e della psichedelia, tutti elementi che si inscrivono nella vostra musica, avete tratto ispirazione da qualcuno in particolare? O forse la percezione di un decadentismo di scuola grunge è una mera coincidenza, dovuta magari a fattori anagrafici?
GLAUCO: sicuramente la scena degli anni ’90 rappresenta la base della nostra formazione. In quel periodo abbiamo preso coscienza di cosa sia la musica, abbiamo comprato i nostri primi dischi, abbiamo visto i nostri primi concerti, e soprattutto abbiamo iniziato a suonare i rispettivi strumenti nelle prime band al liceo. E’ inevitabile che tutto ciò abbia influito e influirà sempre sulla nostra produzione.
Devo dire che abbiamo sempre ascoltato anche tantissima musica dei decenni precedenti e successivi: dal blues di Robert Johnson in poi, ogni periodo storico ci fornisce elementi e ci influenza, e credo si senta abbastanza.
L’alone decadente che si percepisce in Shine, penso sia figlio dell’epoca in cui viviamo, che ci fornisce vibrazioni contrastanti, in cui penso sia giusto veicolare messaggi non solo di evasione, ma che facciano anche riflettere, e possano in qualche modo scuotere le coscienze .
JACOPO: Il fattore anagrafico ha giocato un ruolo importante, ma personalmente mi sento più influenzato dagli ascolti degli ultimi 10 anni rispetto ai primi 25, perché sono state scelte più consapevoli. Il grunge in qualche maniera è stato un assorbimento “passivo”, iniziavo ad amare la musica e quello era la scena del momento. era inevitabile farsi contaminare. Altra cosa secondo me particolare, è che ognuno di noi tre ha da sempre ascolti musicali piuttosto diversi, ma c’è sempre stato un filo logico che ci unisce, e credo che il sound del Neko si collochi in questa zona di congiunzione.
“Shine” si presenta più come un percorso fluido che come una semplice raccolta di tracce. Qual è la storia che sta dietro ad ognuno dei pezzi e quale tracciato segue il vostro percorso di scrittura e di immaginazione musicale? Come si ripartiscono i ruoli tra di voi in fase compositiva?
GLAUCO: il nostro processo creativo si potrebbe definire “schizofrenico”, nel senso che non abbiamo una procedura standard. Qualsiasi spunto, dal classico riff di chitarra al loop di organo, al giro di batteria, al ronzio di un amplificatore può rappresentare la scintilla.
Nel momento in cui si mettono insieme le idee con la prospettiva di progettare la registrazione di un album, le peculiarità di ogni brano vengono smussate e pian piano iniziano a contribuire alla ricerca delle sonorità e delle atmosfere. Il tutto avviene in modo molto naturale, senza ruoli precisi.
La scrittura dei testi segue un iter un po’ particolare: generalmente ultimiamo il tutto il giorno prima di iniziare a registrare le voci… Evidentemente abbiamo bisogno di essere sotto pressione per rendere al meglio…
ROBERTO: Glauco è stato troppo modesto, in realtà tutti i brani hanno preso forma da suoi riff o semplici giri di accordi. Alcuni di questi prendevano la muffa nella memoria del suo telefono da tempo, e solo dopo una lenta maturazione sono riusciti a trovare luce. Altri invece hanno preso forma molto più velocemente, grazie ad alcune intuizioni, o a quei meravigliosi momenti, inspiegabili a parole, in cui tutto si allinea e un brano, quasi per magia e senza rendersene conto, viene concluso.
JACOPO: Concordo, la prima “scintilla” arriva da Glauco…poi però si innesca il coinvolgimento espressivo di tutta la band, e molto spesso il risultato finale è molto diverso rispetto alla prima intenzione.
Scegliere una canzone più delle altre nell’album risulta veramente difficile per il livello estremamente alto della qualità media della tracklist. Se foste costretti ad indicare la vostra preferita in termini di maggiore rappresentatività della vostra attitudine, quale indichereste?
GLAUCO: penso che The Desert Comes possa essere considerato il pezzo più rappresentativo delle sonorità, dell’attitudine, del messaggio che Shine vuole comunicare.
C’è dentro tutto: momenti dilatati, scariche elettriche, ritmi granitici, organi saturi, un po’ di psichedelia, feedback, svariati suoni di fuzz, un testo forte e impegnato.
E’ uno dei primi brani che abbiamo composto e arrangiato, e uno dei capisaldi su cui abbiamo costruito questo disco.