Willie Peyote sta ottenendo un sold out dietro l’altro con il suo tour di presentazione di “Sindrome di Tôret”, il nuovo concept album incentrato sul tema della libertà d’espressione e dei limiti della stessa, in un’epoca in cui la tecnologia ha cambiato profondamente il nostro modo di comunicare e di vivere. Lo abbiamo incontrato in una delle tappe del tour, per conoscere meglio il suo nuovo lavoro.
Anche quest’album porta il tuo marchio di fabbrica, ovvero il rap suonato. Cosa ti spinge a concentrarti anche sugli arrangiamenti oltre che sulle parole?
In realtà sugli arrangiamenti si concentra di più Frank. A me è sempre piaciuta la musica suonata, ho iniziato suonando in una band, l’ho fatto anche altre volte nella vita, e sono sempre stato vicino alla musica suonata con gli strumenti. Semplicemente non posso prescindere da essa, perché è più bello anche il live, è più bello girare con una band e suonare, il disco viene fuori certamente diverso. In realtà la preferisco molto di più al resto e questo mi porta a curare quell’aspetto.
Il purismo della scena rap sta facendo diventare la figura del rapper come una specie di stereotipo?
Lo è sempre stata. In realtà lo è stata in passato, anche se oggi la figura del rapper si è sdoganata un po’, perché ce ne sono di tipi diversi. Ormai si è diffusa anche l’idea che, in qualche modo, il nuovo cantautorato sia anche il rap, nella fattispecie in alcuni generi; poi c’è la trap che dà un’immagine ancora diversa di rapper…I vecchi stereotipi sono un po’ sorpassati, è un dato di fatto che il rap fatto in un certo modo non funziona neanche più, nel senso che ci sono altre correnti che in Italia funzionano meglio in questo momento. Nell’immaginario collettivo è sempre stata una macchietta la figura del rapper, ci abbiamo messo un po’ a sdoganarla e a farla arrivare appunto come musica d’autore e testi impegnati o impegnativi, perché prima si aveva l’impressione che fosse uno vestito largo, o in maniera sgargiante, che muove le mani e dice parolacce.
A proposito di cantautorato, quali sono i tuoi punti di riferimento tra gli esponenti del genere?
Sono un po’ più datati, non sono contemporanei. Mi hanno sempre affascinato Gaber e Jannacci, insomma la scena milanese e quella genovese, che ovviamente è più famosa…ti direi Gaber o Buscaglione, ma lui era un personaggio più borderline e più datato ancora. I punti di riferimento sarebbero loro e poi svariati rapper e artisti internazionali. Damon Albarn è un mio punto di riferimento, non esattamente un cantautore, però.
Ne “I Cani” a un certo punto dici che ti spaventa il fatto che la gente si accontenti. Pensi che i social abbiano creato una società passiva?
La società è sempre stata passiva, i social hanno aumentato la passività perché adesso le cose le fai direttamente da casa, non è necessario uscire per condividere e per raccontare la tua vita, bastano due foto, anche finte, quindi i social possono aver acuito questo problema, ma di base la società è stata sempre pigra, e passiva di conseguenza. È un problema abbastanza diffuso nella storia dell’ umanità, ma chiaramente i social, e internet in generale, hanno portato molte cose direttamente a casa tua, quindi tu di casa non esci più.
Cosa significa per te essere indipendenti nella musica?
Significa poter fare tutte le scelte che voglio, sempre; rimanere coerenti, ma avere anche la libertà di cambiare idea; significa essere liberi; significa anche metterci del proprio, investimenti e rischi di impresa personali, però vuol dire essere totalmente liberi di fare quello che si vuole.
C’è un brano dell’album a cui sei più legato?
Sono legato molto all’album in generale, perché è stata la prima volta che abbiamo lavorato in un certo modo e rappresenta per noi uno step importante nella sua totalità, però il mio pezzo preferito è “Vendesi” un po’ perché era un sacco che volevo fare un pezzo con quel tipo di atmosfere e quegli arrangiamenti lì, un po’ perché c’è Roy Paci, che è un grande musicista ed è una vita che volevo collaborare con lui e poi perché è semplicemente quello che mi piace di più.
Quanto c’è della tua città nell’album?
In realtà ce n’è meno del solito. C’è nel titolo e c’è un riferimento a Porta Palazzo in una canzone, ma la mia città c’è sempre, perché fa parte di me e mi ha influenzato molto. In questo disco c’è in realtà un grazie, c’è più un tributo alla mia città. In “Educazione sabauda” c’era più un riferimento alla cultura, a quello che rappresenta per me la mia città, in questo disco invece i riferimenti, sia nel titolo che in “Metti che domani”, si rivolgono alla città per ringraziarla del calore che mi ha dimostrato, perché si dice nemo propheta in patria e invece nel mio caso, anche stando ai risultati dei concerti che andremo a fare a Torino, sold out tutti e tre, sta andando molto bene e vorrei ringraziare tutti per il calore che mi dimostrano.
Domanda Nonsense: Maleducazione ai concerti, ti è mai venuta voglia di buttare fuori qualcuno?
(Ride). Sì, non posso negarlo, sono anche abbastanza misantropo quindi spesso mi stanno sul caxxo le persone, però al tempo stesso quello a cui tengo è che le persone che sono venute al mio concerto, che hanno pagato il biglietto, che sono venute lì sapendo i pezzi e che quindi hanno occupato il loro tempo ascoltando la mia musica, sappiano che comunque vada devo loro il mio tempo e la mia disponibilità e che possono fare quello che caxxo vogliono ai miei concerti, purchè rimangano nell’ambito del rispetto reciproco, perché io cerco di rispettare tutti e pretendo altrettanto rispetto. Però sì, ogni tanto ci sono persone fastidiose, ma esistono le persone fastidiose nel mondo.
Intervista a cura di Egle Taccia
