Anticipato dal singolo “Harp”, è uscito a gennaio Atlantic Thoughts, il nuovo album dei Pashmak (in persiano come la lana), band milanese con origini siciliane, lucane, iraniane e statunitensi, dall’anima electro-pop, ma legata anche all’art-rock, al progressive e alla fusion. Il secondo brano estratto dal disco si intitola “Sit & Stare”.
Damon Arabsolgar, il cantante del gruppo, ha risposto a qualche nostra domanda.
Come ha preso forma “Harp”?
Damon: penso che Martin avesse fra le mani quel giro di accordi da parecchio tempo. In quel periodo Victor Herrero (Josephine Foster, Vinicio Capossela) mi aveva passato “Journey in Satchidananda” di Alice Coltrane e io e Martin lo ascoltavamo molto. Credo che Martin e Giuli abbiano avuto ad un certo punto la geniale idea di mettere in un campionatore alla Arca un sample di arpa di Alice Coltrane (credo pure che c’entrino i Radiohead con questa intuizione). Nella stessa settimana melodia e testo si sono incontrati con naturalezza.
Poi, parlando con Giuli, c’era questa idea di fare un feat e ci siamo trovati tutti d’accordo sul contattare gli AVAN (per contratto non possiamo dire il nome vero ma se lo leggete allo specchio secondo me ci potete arrivare facilmente), da lì il brano ha preso il volo, si è trattato solo di trovare la giusta struttura e aggiungere le batterie di Anto sul finale.
Il testo invece è stato scritto in tour con i Mombao e parla principalmente del mio rapporto con Anselmo, di quanto sia difficile trovare le giuste distanze con le persone e di quanta aria benefica si crei nel momento in cui si impara a lasciare spazio agli altri. Eravamo in macchina in Montenegro, di ritorno da una data in Kosovo, e stavamo per attraversare il confine con la Serbia, ad un certo punto il navigatore mi dice di girare in una strada ripida piena di tornanti, poche curve dopo ci ritroviamo in una vallata silenziosissima, dei corvi prendono il volo e suono delle loro ali si sente ben oltre il momento in cui smettiamo di vederli, alle nostre spalle sorge una luna enorme, davanti a noi, oltre i covoni, l’orizzonte è in fiamme per un tramonto rosso e viola. Quando mi giro Anselmo sta piangendo mentre si allontana da solo verso la luna. Credo che per me rimarrà un momento assolutamente indimenticabile.
Il brano ha anticipato il nuovo disco uscito da poco per Manita Dischi. Che percorso avete intrapreso con questo lavoro?
Damon: Per la prima volta usciamo con un’etichetta, un ufficio stampa, un booking, un vero distributore digitale e le cose si stanno facendo parecchio serie. C’è un tour, ci sono interviste, ci sono concerti importanti con parecchio pubblico. Stanno cambiando tante cose e giorno per giorno cerchiamo di surfarle tentando, nei limiti del possibile, di non perdere il divertimento e la voglia di stare insieme.
Il progetto “Pashmak” è nato pochi anni fa, ma di certo avete un’identità apparentemente già ben definita, siete d’accordo?
Damon: il progetto Pashmak nasce a dire il vero 8 anni fa, non è un progetto nuovo, abbiamo rilasciato “Magnetic Knife Strip” EP nel 2012, poi “Desquamation” EP, seguito da “Let the Water Flow” LP e “Indigo” EP e ora “Atlantic Thoughts” LP.
Credo che il concetto di identità sia una parola alquanto vaga e priva di significato, anzi a dirla tutta trovo che sia un vocabolo tramite il quale si siano creati più danni che benefici (nazionalismi, razzismi etc), l’identità è flessibile e permeabile, dinamica e non limitabile.
Per fare un paragone più basso penso sempre a Jim Carrey dopo “Man on the Moon” in cui interpretava Andy Kaufman, nel documentario “Jim and Andy: the great beyond”, Carrey sviscera le problematiche del performer con la propria identità e trovo che sia un discorso molto interessante.
Durante tutto quest’anno con Martin abbiamo discusso molto anche sul concetto di autenticità nel mondo del pop/rock e di quanto lo stare sul palco e “interpretare se stessi” sia molte volte una forzatura. Durante il tour di KID A dei Radiohead, Yorke ha sofferto molto questa incoerenza traendone però poi il materiale su cui ha lavorato per gran parte del suo percorso. Nella stessa maniera quando si sale su un palco il limite fra finzione e trance è estremamente sottile e l’abilità del performer sta tutta in questo continuo entrare ed uscire dal flusso, interpretare ed essere e l’inchino finale segna la morte del personaggio e la possibilità di parlare orizzontalmente alle persone sotto al palco. Come vedi il concetto di identità è un argomento a me molto caro, penso che le domande soggiacenti a questo vocabolo siano alla base della domanda “perché sono su questo palco?”. Vi consiglio “Identità etnica” di Ugo Fabietti, “Teoria della performance” di Schechner e “L’ossessione identitaria” di Remotti.
Quanto attingete dalle vostre origini per comporre?
Damon: credo poco. Non sento di avere radici da nessuna parte.
Una cover che un giorno vi piacerebbe riarrangiare?
Damon: qualcosa dei Bluvertigo, “Anna” di Battisti, “Golden Brown” degli Stranglers, “Le vent nous porterà” dei Noir Desir, “Pyramid Song” dei Radiohead, “Amico Fragile” di De Andrè, una canzone da “Industrial Silence” dei Madrugada. In realtà non abbiamo mai fatto una cover, non credo che la faremo mai.
Domanda Nonsense: oltre la salita cosa vedete?
Damon: natura sconfinata.
Intervista a cura di Cinzia Canali