ENNE è il progetto musicale di Nicola Togni, bergamasco, cresciuto a dischi indie-rock e serie tv. Ispirato dalla scena retro/synthwave di Kavinsky, FM Attack, College, ha rielaborato e fatte proprie le loro sonorità, adattandole alla forma canzone del pop indipendente nostrano, quello che ormai è stato ribattezzato come itpop.
“I suoni di ENNE richiamano il mondo di Blade Runner, i viaggioni notturni a bordo di una Delorean, le palme e i cieli rosa propri di un’estetica vapor che negli ultimi anni è diventata supervirale, il tutto contornato da testi in italiano accattivanti e attuali.”
Ci ha fatti sognare con “San Junipero” e adesso ci presenta il suo secondo singolo “Al centro di una guerra”.
Intervista di Egle Taccia.
Mi parli di ENNE?
Certo, ci proviamo. Cercherò di non essere troppo logorroico, ma non prometto nulla.
Com’è nato il progetto?
ENNE è nato un po’ per caso, un po’ per gioco. Ero a casa di Federico Laini, il mio produttore nonché carissimo amico, una sera di giugno dell’anno scorso e tra un vodkatonic e l’altro gli ho fatto ascoltare un po’ di roba synthwave strumentale che mi piaceva in quel periodo. Era un mese di sessione esami in cui ascoltavo praticamente solo playlistone di quel genere in modo ossessivo e lì per lì ci siamo detti “Dai, buttiamo giù una traccia, così per divertirci”. In un’oretta è venuta fuori una roba interessante che si prestava molto bene al cantarci sopra qualcosa. Ho preso un mio post idiota di Facebook e ci ho scritto sopra un testo al volo. Quel pezzo si sarebbe poi evoluto fino a diventare quello che è il mio secondo singolo uscito un mesetto fa.
Quanto “San Junipero” ha a che fare con Black Mirror e Netflix?
Tantissimo direi. Il testo stesso nasce come citazione iperdescrittiva della puntata omonima 3×04 di Black Mirror, che a suo tempo mi piacque davvero tantissimo: in un certo senso se non hai visto quell’episodio è difficile metterne a fuoco veramente il contenuto. Però non è solamente un mero richiamo paraculo alla serie tv, ho trovato molte analogie tra quella trama e un amore fatto di distanze impossibili, incolmabili. Diciamo pure che il ritornello della canzone sta a rappresentare il desiderio di poter finalmente stare insieme con qualcuno superando tutti quei limiti spaziali e temporali che spesso sembrano invalicabili. Della serie “Forse solamente a San Junipero potremmo davvero amarci”.
“Al centro di una guerra” è il tuo secondo singolo. Di cosa parla?
Il tema centrale è l’odio, che è un sentimento a cui tengo molto. Penso che senza odio non possa esistere l’amore, quindi per certi versi l’odio è proprio necessario. Ne ho voluto dare una rappresentazione abbastanza generazionale ma anche ironica (autoironica?). In fin dei conti tutti quanti odiamo categorie di persone e comportamenti che finiremo prima o poi per adottare noi stessi, in una dinamica tanto ipocrita quanto naturale. Puntiamo sempre il dito contro qualcosa, ma non ci rendiamo conto che spesso dovremmo puntarlo contro noi stessi. Mi sono chiesto perché odiamo e mi sono risposto immediatamente così: perché abbiamo bisogno di qualcosa che ci unisca, che non ci faccia sentire soli. L’odio è quella roba che ci lega da sempre con gli altri ed è per questo che fenomeni come l’hating, che con i social sono diventati sempre più virali e quotidiani, attecchiscono così bene. Purtroppo, o per fortuna, l’odio è un fattore di coesione sociale davvero forte.
Hai già pronto un album?
L’album è in cantiere. Ho in ballo un po’ di robe interessanti, anche collaborazioni con altri artisti più o meno vicini al mio mondo. Di certo arriveranno altri singoli.
Anonimato, foto sfocate, progetti troll, hype, itpop. Cosa mi dici di questa nuova scena che si sta portando avanti a tal punto da affascinare il mainstream?
Quante righe ho a disposizione? Questa è una domanda bella tosta, ho punti di vista diversi e anche contrastanti su questi “fenomeni”, chiamiamoli così, con un approccio quasi scientifico. Penso che negli ultimi anni un po’ in tutto il mondo delle arti, in particolare in quello della musica, la comunicazione abbia preso il sopravvento totale: questo porta da un lato alla possibilità di poter giocare quasi ad armi pari con chi può contare su budget enormi, dall’altro anche il fatto che la facilità di accesso da parte di tutti porta inesorabilmente ad un appiattimento della qualità. Restando nell’ambito dell’indie italiano (o meglio, dell’itpop!), credo che il primo vero esempio sia stato quello di Contessa con i sacchetti di carta in testa. Lì è iniziato tutto. Gazzelle con il viso sfocato, Liberato con l’anonimato e quant’altro sono state solamente declinazioni diverse (più o meno elaborate, più o meno efficaci) dello stesso concetto. Io pure c’ho pensato a questa soluzione per ENNE, poi mi sono convinto che era meglio metterci la faccia e anzi, al contrario di questi altri, mettercela in prima linea andando ad insistere soprattutto all’inizio sul fatto che fossi proprio io, vuoi perché nella scena indipendente per un motivo o per l’altro c’ho sempre messo le mani, vuoi perché sono un egocentrico del cazzo. Credo sia fondamentale trovare un proprio stile anche nella comunicazione, in un mondo in cui tutti quanti si sono tuffati alla velocità della luce è diventato necessario costruirsi una propria identità, altrimenti sei la copia della copia della copia. Ed è proprio qui che voglio arrivare: l’hype non ce lo si autoattribuisce, l’hype è quel senso di “attesa” che viene dal basso, viene dal pubblico, dalla gente; in poche parole l’hype non si crea né si distrugge, si trasforma. Per cui a tutti coloro che credono basti creare un profilo fake e aggiungere gente a caso, fare due o tre immaginette criptiche e qualche scrittina bagnamutande, consiglio di impegnarsi di più sulla musica e sui contenuti. Oramai il mercato è bello saturo (brutto parlarne in questi termini ma tant’è, è proprio per questo che si affascina il mainstream, perché è un mercato), quindi la cosa basilare restano pur sempre le canzoni. Se hai quelle vai tranquillo, se non hai quelle, se non sei distinguibile, se non hai nulla da dire, non emergerai mai. Ed è giusto così.
Che ruolo giocano i social in tutto questo?
I social in questa dinamica rappresentano il tutto. Non si può più prescindere dal social, o almeno così sembra. Poi magari arriverà qualcuno che riuscirà a farsi notare in modo alternativo e in tal caso lo abbraccerò fortissimo. Però c’è una grande considerazione da fare, che si ricollega un po’ al discorso di prima: i social sono solamente un mezzo con cui condividere contenuti, con cui rapportarsi con la fanbase, ma non devono essere il contenuto, il rapporto con la fanbase. Per questo, per quanto banale, ma non ovvio, sottolineo di nuovo la centralità di “cosa si fa” e “chi si è”. Sarebbe inutile cercare di rappresentarsi in un certo modo per poi essere diversi in mezzo alla gente, sarebbe inutile preparare il terreno per qualcosa di grande con tanto di frasi con hashtag e video preview per poi uscire con un prodotto poco memorabile, poco efficace.
Il caso Cambogia ci ha mostrato quanto sia sottile la linea tra fake e realtà. Non pensi che la voglia di apparire (a volte scegliendo di non farlo) stia offuscando la musica, generando molta confusione e odio virale attorno ai nuovi fenomeni musicali?
Assolutamente sì. Sono d’accordo. La vera domanda penso sia “La gente se ne sta accorgendo?”. Perché parliamoci chiaro, veniamo da ormai più di dieci anni di talent show, veniamo in questi giorni da una delle peggiori (spero, perché di solito non lo seguo, ma a sto giro per il 90% degli artisti ho provato proprio pena) edizioni del Festival della Canzone Italiana, fa davvero così scalpore che un certo indie-non-più-indie-ma-forse-chiamiamolo-itpop-o-forse-sarà-semplicemente-pop punti molto sull’apparenza? A me il progetto Cambogia ha fatto ridere, puzzava di troll lontano chilometri e forse loro stessi non sono stati in grado di gestire la cosa perfettamente fino in fondo; so che il loro obiettivo finale era quello di portare in giro un live in playback, o almeno così mi ha detto il mio caro amico fake-cantante. Purtroppo la vicenda non si è chiusa nel migliore dei modi, ma l’idea in sé era carina dal punto di vista “esperimento sociale”. Ce n’era bisogno? Boh, forse no. Si sono divertiti come matti loro a faro? Sì, e allora chissene frega. Il fatto stesso di incazzarsi per una roba del genere secondo me esprime proprio l’incapacità stessa del fruitore di comprendere le dinamiche di cui sopra (hype, social ecc.). La musica c’è, esiste, basta andarsela a cercare come si è sempre fatto. Se ci sono artisti che vogliono ottenere una certa sovraesposizione mediatica tramite altri elementi non-musicali, che siano liberi di farli. Se c’è gente che li vuole seguire anche per quello, che siano liberi di farlo. Che comunque là fuori ci sono ancora Iosonouncane, Verdena, Colapesce, Cosmo, Andrea Laszlo de Simone… Tutti artisti grandiosi che dimostrano come sia poi sempre la musica a vincere.
Cosa puoi dirci di quella che è stata definita come la massoneria della musica italiana e del suo ruolo in questa rivoluzione musicale?
Ci sarebbe un’infinità di roba da dire e sono molto di parte ormai perché in quella community ho stretto tanti rapporti di amicizia con tante persone in giro per l’Italia, con gli amministratori stessi, che sento quotidianamente e ogni tanto ci si becca in giro. Da un punto di vista di “influencing”, come tutte le comunità giganti, Diesagiowave/Indiesagio ha la possibilità di muovere i gusti della gente e far conoscere artisti, italiani in particolare. Più che massoneria, che mi sa di qualcosa di losco e non alla luce del sole, la definirei come prima linea della musica italiana. Da fuori è vista malissimo, da molti detrattori snob pure. La verità è che su 20mila persone ci sono tizi che ne sanno, tizi che non ne sanno, tizi a cui frega e tizi a cui non frega, molto semplice. C’è gente che ascolta a ripetizione i soliti 2-3 artisti famosi, c’è altra gente che passa le giornate a parlare di Aphex Twin e Kamasi Washington. Cosa è cambiato rispetto a prima? E’ cambiato che ora c’è un posto dove confrontarsi, in modo rilassato (e simpatico = meme), soprattutto di musica, ma non solo. La diretta conseguenza è che se si genera interesse collettivo nei confronti di un nuovo artista allora è molto probabile che quell’artista emerga, ma il tutto succede in modo molto spontaneo. Torniamo sempre al solito discorso, se uno piace finirà per piacere, se uno fa schifo finirà per fare schifo. Diesagiowave in questo può semplicemente fungere da acceleratore, da incubatore.
A fine aprile, al Magnolia di Milano, i vostri raduni diventeranno un vero festival. Ti vedremo su quel palco?
Mi vedrete sicuramente in prima fila alle transenne o al bancone a sorseggiare vodkatognic.