Quattro ragazzi della provincia napoletana – Antonio Acconcio (testi, voce, chitarra acustica, tastiere, harmonium), Lorenza Acconcio (basso), Fabrizio D’Andrea (chitarra elettrica e acustica) e Alessandro Bocchetti (batteria, percussioni) – e un luogo di ritrovo che diventa anche il nome scelto per questo progetto: Lamansarda.
Foreign Bodies, uscito per I Make Records, è il loro disco d’esordio. Folk americano, testi in inglesi e una delicatezza inaspettata.
Antonio ha risposto a qualche nostra domanda.
Com’è stata arredata inizialmente questa mansarda?
In principio in modo molto essenziale: una chitarra, un basso ed una tastiera, era tutto ciò che avevamo mia sorella ed io. Condividevamo i reciproci ascolti da una stanza all’altra per poi ritrovarci in sala a suonare. E sarebbe rimasto tutto lì probabilmente, se un’estate non avessi lasciato (senza molte speranze) un annuncio su un social network musicale a cui risposero Fabrizio ed Alessandro, che ora sono rispettivamente chitarrista e batterista de Lamansarda. Per le prime prove in mansarda dovevamo preparare un brano dei Fleet Foxes, ma dopo pochi minuti eravamo già ad improvvisare altro e sembrava funzionare. Ancora oggi la mansarda è il posto in cui nascono e vengono scritte le nostre canzoni.
In “Foreign Bodies” si parte dall’intimità familiare per raccontare come certe dinamiche si ripercuotano poi sulla nostra esistenza…
Ho provato a raccontare i corpi estranei partendo dagli spazi in cui meno ci si aspetterebbe di trovarli: la propria casa, quella in cui, fino ad una certa età, si condivide una prossimità coi propri genitori e fratelli che spesso si rivela solo fisica, materiale. Mi piace trascorrere il tempo in casa mia e degli altri, in passato l’ho preferito spesso al tempo trascorso fuori, e scrivendo canzoni mi sono accorto che il punto d’osservazione era privilegiato. Ho potuto indagare su certe dinamiche pressocché indisturbato. Nel disco l’estraneità è declinata in vari contesti, non solo domestici ma anche lavorativi o scolastici.
Un aneddoto particolare accaduto durante la lavorazione dell’album?
Ad un mese e mezzo dal nostro ingresso in studio abbiamo deciso di riarrangiare tutti i 9 brani che avevamo pronti. È stato molto rischioso, ma lo ritenevamo necessario per far aderire meglio quelle canzoni all’idea del disco che avremmo voluto fare e che ognuno di noi coltivava e non aveva rivelato all’altro. Eravamo tutti d’accordo sulla direzione ed è stata un’esperienza esaltante, nonostante l’inevitabile ansia da scadenza. A complicare le cose ci ha pensato Drunk Meridian, un brano che a ridosso delle registrazioni era completo solo a metà ma che ha trovato il suo posto nell’album proprio a chiusura della tracklist.
Che tipo di set state preparando per la presentazione live del disco?
In studio abbiamo avuto modo di sperimentare con trombe e clarinetto, e non vedevamo l’ora di poter portare questa esperienza ai live. In queste prime date la nostra formazione al completo prevede anche Gabriele Cernagora, un clarinettista che ha sposato la causa e che ci auguriamo possa accompagnarci a lungo.
Quanta ostinazione occorre per fare musica oggi?
Ci troviamo a condividere certe difficoltà che probabilmente incontrano altri coetanei nel trovare un lavoro. Mandare un presskit o un link con qualche nostro brano ai gestori dei locali somiglia sempre più a ciò che abbiamo già fatto coi curricula. La stagnazione coinvolge molti ambiti in Italia e finché la nostra base sarà qui faremo il possibile per migliorare un ambiente che al momento appare assai depresso.
Domanda Nonsense: la notte porta consiglio?
Per non parlare del primo pomeriggio. Conveniamo tutti che i sogni più ispiranti appartengano a quell’ora del giorno.
Intervista a cura di Cinzia Canali