Si intitola Fructus l’ultimo capitolo della trilogia di Iacampo, cantautore dalla penna delicata ed essenziale. Un disco dai suoni non comuni, profondo ma semplice all’ascolto, elegante e sobrio contemporaneamente.
Abbiamo parlato con l’artista per approfondire vari aspetti di questo nuovo lavoro.
Prima di parlare di “Fructus” vorrei fare un passo indietro. Dimmi se sbaglio, ma ho l’impressione che con “Valetudo”, il primo album della trilogia, tu abbia trovato una consapevolezza totale della tua arte e del tuo approccio alla musica…
Sì, una consapevolezza fisica soprattutto. Di ritmo, di voce, di relazione con la chitarra. Il lavoro comunque è stato molto, senza musica e senza chitarra. Ho dovuto dimenticare e reimparare. Sto ancora lavorando.
“Valetudo, Flores et Fructus”, una trilogia premeditata o l’idea è arrivata in un secondo momento?
Un’idea nata “in itinere”, nel percorso. Mi sono fatto suggerire un po’ dalla vita dove andare, come fossi al buio. Man mano si è chiarito questo percorso tra le parole e i significati, e ne è venuto fuori un senso.
“Fructus” vede l’importante collaborazione di Gui Amabis, come vi siete incontrati?
Ho conosciuto la sua musica su una web radio brasiliana, poi la vita ha fatto il resto.
Tutta una serie di incroci fortunati che sarebbe un po’ lunga da spiegare. Comunque, alla fine, tramite i ponti tra Paolo Naselli Flores (urtovox), Andrea Sbaragli e Tomaz Di Cunto (entrambi di A Buzz Supreme) il cerchio si è chiuso.
Ci siamo conosciuti, la mia musica gli è piaciuta fino a trovare un accordo di collaborazione. È stato molto importante ai fini del suono del disco, ha curato tutti i campionamenti.
Ha lavorato in Brasile sulle canzoni, poi è venuto in Italia per chiudere con me e Leziero Rescigno la produzione.
Tra i brani presenti in quest’ultimo lavoro troviamo “Dividi il pane”, un brano che attraversa i secoli, ma che, in questo particolare momento storico, vorrei ascoltassero tutti con estrema attenzione. Puoi parlarcene?
Nasce da un’idea semplice. Parla di quello che ci dicono da sempre coloro che lo hanno capito: siamo tutti fratelli. Sembra una banalità, come scrivo nella canzone, ma sottende ad una grande chiarezza d’anima. Ho cercato di farne una canzone semplice ma profonda nello stesso momento. È stato bello cantarla ed è altrettanto bella la versione del disco.
Diventare padre in che modo ha influenzato i tuoi racconti musicali?
Che cerco la verità, più che la sincerità, che sono responsabile delle mie canzoni.
Cerco di lasciare qualcosa di buono, utile. Con “Goodmorningboy” erano tanti Blues, tanti sfoghi, ma le canzoni hanno un potere. Vale la pena usarlo bene. Altrimenti quel potere fa tanta confusione. Sono tempi di grande confusione. Mettiamo i nostri sfoghi su macchine potenti e canzoni accattivanti. Bah…
Generalmente, per un artista, la dimensione live rappresenta uno dei momenti più importanti. Cosa trasmettono gli occhi del tuo pubblico?
Per me il live è il momento di realtà di questo lavoro. Quello in cui si rivive il divenire. Quello in cui la musica diventa vibrazione viva.
Nel live mi immergo in me stesso e in quello che ho attorno.
Il mio pubblico è attento, è semplice, è maturo.
Domanda Nonsense: la notizia che vorresti leggere in prima pagina domani mattina?
Riforma della scuola: si riparte dall’umanità, dall’amore, dalla conoscenza e dalla musica.
Intervista a cura di Cinzia Canali