È uscito a novembre Il lupo cattivo, il nuovo disco di Lucio Leoni, cantautore romano eclettico, uno dei pochi a saper coniugare egregiamente monologhi teatrali, rap, punk e cantautorato di alto livello.
Abbiamo intervistato l’artista per scoprire meglio alcuni aspetti di questo “saggio sull’esistenza”.
Questo lupo è davvero così cattivo?
Dipende tanto da come lo si guarda. Se si guarda ai lupi cattivi che ci vengono indicati quotidianamente direi di no. Siamo abituati a sentirci dire che l’altro da noi, lo straniero, il migrante sia pericoloso, cattivo appunto, ma la realtà è che a guardarlo negli occhi questo lupo ci si accorge che c’è tanto più di noi stessi in lui di quanto immaginiamo. E questo di per sè non è un male. Ognuno di noi ha una sua “parte cattiva”, basta imparare ad accettarla.
A differenza di “Lorem Ipsum”, per il quale ti eri affidato ad una band formata prevalentemente da ex-musicisti, per “Il lupo cattivo” ti sei fatto affiancare da un duo ben collaudato come Le Sigarette e da Filippo Rea, Daniele Borsato e Giorgio Distante. Cosa ti ha spinto verso questo cambio di direzione?
Avevo bisogno di uno slancio in più. Su “Lorem Ipsum” cercavo il controllo totale della costruzione musicale, ed avere una band formata da ex-musicisti mi permetteva di risultare “il più bravo”. Con Le Sigarette, Giorgio, Daniele e Filippo i livelli si sono ribaltati e ho trovato spinte creative diverse dalle mie che mi hanno aiutato a portare la macchina sonora da altre parti.
Scelta inconsueta: non c’è nessun basso.
Il basso è uno strumento fondamentale. E’ la pulsazione, è il contatto con il terreno, è la pancia di una composizione. Ecco avevo bisogno di rimanere a mezz’aria, di sentire i brani più aerei e più liberi da contatti pragmatici con la realtà. Non c’è il basso ma le frequenze basse si. Non c’è lo strumento, ma c’è il significato dello strumento. E’ una scelta “fonica” più che musicale in senso stretto.
Uno dei brani che mi ha colpito di più dell’album è “Mapuche”, puoi raccontarci la sua genesi?
Per cultura, abitudine, usanze, tradizioni cresciamo convinti che ad un certo punto della nostra vita faremo un figlio. Poi una mattina ci svegliamo e ci accorgiamo che forse no. Forse un figlio non lo faremo, per mille motivi diversi: perché siamo già troppi e allora scegliamo di non farlo, perché non possiamo, perché non troviamo la persona giusta con cui farlo…insomma io una mattina mi sono svegliato e ho realizzato che non è così scontato in fondo. E allora ci sono rimasto un po’ male, perché tra le cose belle da fare quando si scrive canzoni c’è quella di scrivere una ninna nanna al proprio pargolo. Però mi sono detto chissenefrega, e l’ho fatto uguale.
Lo spunto è quello di una città ideale che si chiama Mapuche, dove cominciano a cadere i muri e si sente puzza di libertà. Il nome arriva dalla popolazione dei Mapuches (Chile/Argentina), recentemente tornata agli onori delle cronache perché sta portando avanti una battaglia di dignità e di protezione delle proprie radici e della propria cultura contro una serie di corporazioni che vogliono espropriare le loro terre (tra queste c’è anche la nostra Benetton).
Hai scelto di inserire nella tracklist anche “Io sono uno”, un pezzo di Luigi Tenco che hai rielaborato regalandogli una nuova veste.
Sì. Mi sembrava interessante dare uno sguardo in più ad uno degli artisti più fraintesi della storia della musica italiana.
E se dico fundcrowding e Tiziano Ferro cosa mi rispondi?
Dico peccato….Poteva andare meglio, però che grande idea di marketing è stata?!
La prima volta che hai ascoltato il disco terminato che sensazione hai provato?
Insoddisfazione, come sempre. Il prossimo sarà più bello e completo. Lo dico sempre, non succede mai.
Domanda Nonsense: che odore ha la paura?
Lo stesso odore dei fiori, perché si mimetizza nelle cose più belle.
Intervista a cura di Cinzia Canali