Sound rinnovato, rock che stringe l’occhio agli anni ’70 ma che non ha paura di accarezzare il pop, una chitarra e una voce morbida e ruvida al tempo stesso. New eyes è il titolo del nuovo Ep (5 brani in lingua inglese) del cantautore bolognese Natan.
L’ultimo tuo album, “Someone will save you”, risale al 2015. A livello artistico quanto ti senti cambiato oggi?
Ottima domanda. “Someone will save you” è un disco che praticamente non ho promosso. La produzione è stata molto lunga, di un disco lungo e complesso, in un periodo mio che coincide con una maturazione tecnica e artistica. Morale: appena è finito l’avrei rifatto in maniera diversa. È anche per questo che ho pensato da lì in poi di dedicarmi ad EP e prodotti più brevi.
A livello concettuale, come si deduce dal titolo e dalla copertina, avevo capito che c’era qualcosa che non andava, almeno nella società, ma non avevo capito cosa. La consapevolezza è arrivata con “New eyes”.
Ci racconti come ha preso forma, invece, “New eyes”?
Ho tentato di sintetizzare così mesi di ricerca che hanno ispirato la mia persona e questo disco:
Dopo essermi soffermato più nel profondo sull’archeologia e sulle antiche rovine megalitiche che troviamo sparse anche nei più remoti angoli del mondo, ed essermi accorto che la storia antica deve essere molto diversa da come ci hanno raccontato, qualcosa ha iniziato a risvegliarsi dentro.
Spero che tramite la magia della musica qualcuno possa sentire gli orizzonti del mondo allargarsi, come li ho sentiti io. |
Se compreso, questo è il punto caldo.
In tutto il mondo ci sono rovine megalitiche, fatte con una tecnologia per forza di cose non primitiva. Hanno tecniche costruttive in comune in tutti i continenti. Sopra di esse (quindi posteriori), costruzioni più semplici, fatte di pietre piccole, attribuibili alle varie civiltà che conosciamo.
Basterebbe questo a smontare la timeline della storia come la conosciamo.
Con l’arrivo di internet e lo scambio veloce di immagini e informazioni tra continenti, l’archeologia e quindi la storia si stanno riscrivendo.
I meno intelligenti potrebbero dire: “e sapere che la storia dell’uomo è diversa cosa cambia?”.
Capire che la società ci dà spiegazioni su tutto, anche laddove non ne ha una pallida idea è stata una botta di luce in faccia, che spinge sempre di più a cercare la verità, anche metafisica.
Questo per la parte concettuale, la musica come si sa va sentita e non può essere raccontata, non fa parte di questo mondo, e per questo la trovo più importante.
Se dovessi definire questo disco con tre parole?
Vecchio, nuovo, libero.
Che rapporto hai con la chitarra?
Un’altra domanda perfetta per lo stato delle cose. Per anni l’ho guardata male perché non faceva quello che volevo, e immaginavo quanto gusto poteva invece dare a un Hendrix o un Jeff Beck, che ci giocavano tanto. Pur suonando da più di 20, è da pochi anni che ho trovato un po’ di confidenza e di bei suoni, e abbiamo fatto la pace.
Il primissimo pezzo che hai suonato con questo strumento?
“Wish you were here”, Pink Floyd.
Domanda Nonsense: cosa trovi profondamente rock nel 2018?
Risposta Nonsense: una cosa davvero rock nel 2018, come nel 2017, sono sempre gli anni ’70.
Intervista a cura di Cinzia Canali