Un album che sviluppa al meglio alcune delle potenzialità che il capitolo precedente, “Gospel”, aveva evidenziato ma che, al tempo stesso, marca anche un distacco in termini grafici, sonori e poetici . Il titolo di questo nuovo lavoro è Ramingo e l’artista in questione è Davide Ravera.
Registrato quasi tutto dal vivo in studio nel giro di una settimana, l’opera è completamente elettrica e arricchita da alcune ricerche sonore di Umberto Palazzo, ancora una volta nella veste di produttore artistico. 13 brani e un lungo viaggio tra le ferite dell’animo umano.
Alle spalle “Gospel”, è appena uscito “Ramingo” e hai già pronto il materiale per altri due album. Si parla di una quadrilogia… Cos’hai in mente?
I tragici sviluppi degli eventi cantati in “Gospel” sono stati l’ultimo tratto di miccia per un imponente ciclo di scrittura, concluso qualche mese fa. Mi sono trovato a un bivio, scrivere o soccombere; a un certo punto ho compreso che non avevamo a che fare con singoli progetti e semplici canzoni ma con una sorta di gigantesco mandala poetico e musicale che descrive, corrispondendovi, un personale viaggio iniziatico nelle praterie dello spirito. Dopo un album bianco e uno rosso, il terzo sarà nero; lo pubblicheremo nel 2019.
Anche “Ramingo” vede alla produzione artistica Umberto Palazzo. E’ il caso di dire squadra vincente non si cambia?
A dire il vero e facendo una media, pur suscitando un certo interesse “Gospel” non ha ricevuto un’accoglienza straordinaria. Umberto, il sound engineer Davide Cristiani e io sapevamo di avere fatto il miglior disco possibile in considerazione dell’urgenza creativa e della necessità di fondere diversi approcci e storie artistiche – ma sapevamo anche che avremmo potuto fare di meglio proprio in virtù dei pregi e difetti del primo lavoro comune, conservando la stessa squadra ma facendo piccoli aggiustamenti alla formula. “Ramingo” è più a fuoco del lavoro precedente, animato da una tensione più costante e forse anche più comprensibile per il pubblico. Ci siamo divertiti molto di più nel farlo e si sente.
Che tipo di uomo si cela dietro i 13 brani del disco?
Preferisco dirti che tipo umano ho cantato in questo album. Queste canzoni raccontano, in prima persona o in forma di dialogo e utilizzando a volte l’allegoria lupesca, la forma mentale di chi si considera perdente per natura, vagabondo per necessità in quanto rifiutato dal branco che lo ha generato. Trattano quindi di amori carsici ed espressi malamente che vanno a sbattere contro muretti d’asfalto eretti nella nebbia padana da non si sa chi, di passioni cerebrali e immature coltivate male da personaggi che preferiscono nutrirsi di feticci ed attese rituali, piuttosto che mettersi in gioco afferrando una volta per tutte le redini della propria esistenza.
In “Ho iniziato a sospettare di me” canti “sono vittima e carnefice da sempre allo stesso tempo”. Raccontaci meglio questo brano.
Il ramingo è un autolesionista inconsapevole. Indelebili e invisibili nella sua mente e in tutto il corpo, ci sono le stigmate della sensazione di inadeguatezza. Nel timore di non esserne all’altezza, si accanirà ciclicamente sull’oggetto del proprio desiderio, mettendo in atto dolorosi auto-sabotaggi pur di non trovarsi davvero nel ruolo di capo-branco. Aspira al trono ma non riesce ad immaginarsi con una corona in testa, né peraltro è in grado di ubbidire agli ordini di alcuno, perché comunque ha dovuto imparare a nutrirsi da solo. Si sente destinato a correre, fuggire, scappare da sé. Il vantaggio è che questa sua natura gli permetterà di sviluppare una straordinaria capacità di auto-conservazione che, unita alle doti di veggenza e trascendenza di cui tratta il prossimo capitolo della quadrilogia, diverranno volontà di potenza mettendolo in grado di compiere imprese impossibili.
Chiude la tracklist “Dedalo”, un pezzo del 2010. Perché questa scelta?
Quando la mappa della “quadrilogia dello spirito” ha iniziato a prendere forma, mi sono reso conto che quella canzone anticipava e racchiudeva, in pochi minuti, parecchi dei contenuti di questo album. In fondo Dedalo è un ramingo che ce la fa, a costo di prove sovrannaturalmente dolorose. Ovviamente allora non lo sapevo ma “il tema di Dedalo” è in realtà una specie di gasdotto suboceanico che ribolle dei temi cruciali della quadrilogia. Non credo sia un caso se l’ultimo brano che ho scritto – e lo resterà per un bel pezzo – si chiama “Icaro”. Contiamo di pubblicare l’ultimo capitolo nel 2021, rispettando una cadenza biennale.
Cosa rappresentano per te Modena e l’Emilia in generale?
Modena è per me la casa che non ho mai scelto e che una parte importante della mia famiglia, mio padre, non ha mai veramente sentito come tale. I miei genitori sono arrivati qua negli anni ’60, uno originario di Sampierdarena e l’altra del Monferrato, con un altro figlio piccolo nato quando vivevano a Firenze. Erano anni di grande mobilità lavorativa e di forti speranze di miglioramento della qualità della vita, per una generazione cresciuta sotto le bombe. Per noi un certo benessere è presto divenuto scontato ma le ferite ereditarie faticano a cicatrizzare; ci ho messo decenni a trovare una certa armonia con questa città e non solo per i suoi limiti impliciti di centro, tutto sommato, di provincia. Poi, da bravo ramingo, ho annusato l’odore di un fuoco sotto la cenere; è stato allora che le sue parti più vive ed oscure, insieme ad alcuni incontri cruciali, hanno fatto di Modena e dell’Emilia un ambiente ideale – e uno scenario poeticamente interessante – per un processo doloroso ma indispensabile per riuscire a gettare lo sguardo oltre ogni tipo di confine, fisico e interiore.
Intervista a cura di Cinzia Canali