Il rito della città è l’album d’esordio, autoprodotto, del cantautore Francesco Pelosi, uscito il 6 ottobre e anticipato dal singolo O morte. Un disco che nasce in una città di provincia e proprio di essa vuole raccontare sfatando alcune mitologie e avvalorandone altre.
Ascoltando “Il rito della città” penso ad una calda coperta in una silenziosa serata invernale; è difficile, oserei dire impossibile, non ritrovarsi protagonisti di quelle parole, di quella melodia. Tu con che spirito hai dato forma a questo lavoro?
“Il rito” è l’ultima canzone che ho scritto per il disco ed è quella che ha poi imposto la sua poetica su tutto il lavoro. Lo spirito che l’ha partorita è quello che vivo da quando ho cominciato a frequentare le osterie della mia città, creando una vera e propria danza, romantica e rocambolesca ma gentile, di situazioni, persone, personaggi, amici, amiche, amori. È parte (una parte fondamentale direi) del mio mondo e della vita che vivo. Qualcosa di anacronistico, certo ma, come ho scritto nei ringraziamenti del cd, un luogo “dove lo scambio è ancora fertile”. Quando scende la nebbia, qui in pianura, qui in provincia, è difficile non illanguidirsi, è difficile anche, per chi ha l’animo predisposto alla malinconia o al romanticismo, non essere preda di mitologie. Fasulle o reali che siano queste ultime, però, chi partecipa a questo rito della città ne è sostenuto e abbracciato e ha gli occhi gioiosi anche nel tormento. Il solo modo per presentarmi al pubblico, per portare fuori la mia musica è stato allora parlare e cantare questo banchetto conviviale che mi nutre.
Il modo in cui “racconti” i brani ricorda quel bel connubio di cantautorato e musica popolare di qualche decennio fa. Merito della tua formazione musicale?
Immagino di sì. Anche se di formazione in senso accademico o quantomeno scolastico del termine non si può parlare. Non ho infatti né diplomi né lauree ma ho ascoltato tanto e soprattutto ho amato tanto ciò che ho ascoltato (e che ascolto tutt’ora). Una passione che in una qualche strana forma ossessiva è diventata studio. E così i miei libri di testo sono state le canzoni popolari tramandate ad esempio da Giovanna Daffini o Caterina Bueno e il repertorio e la “scrittura” dei vari De Andrè, Guccini, De Gregori. Quel modo di raccontare e di fare canzone mi parla e mi fa innamorare. Ne riconosco la voce nel profondo.
Qual è stato il primo pezzo scritto per questo album?
Nell’album ci sono tre pezzi che risalgono al passato, scritti vari anni fa, ovvero “Sonno”, “Storia di una fiore” e “Canzone dei poeti russi” e che sono confluiti nel progetto. Il primo pezzo scritto appositamente per il disco è allora “1260” dove cito Gherardo Segalello, eretico parmigiano bruciato vivo dall’Inquisizione nel 1300. Questo personaggio dimenticato dalla storiografia ufficiale, insieme a una certa sensazione di medioevo contemporaneo, dovevano essere inizialmente le tematiche centrali dell’album che poi ha preso una rotta leggermente diversa lasciando a Segalello e al nostro medioevo il ruolo di apripista per l’ascolto, una sorta di genesi narrativa.
Sei anche un amante dei fumetti e, proprio recentemente, hai scritto un brano inedito dedicato a Rat-Man: “Ninna nanna per il topo”. È la prima volta che riesci ad unire la passione per la musica a quella del fumetto?
È la prima volta che rendo pubblica una composizione ispirata a quel mondo che mi ha fatto crescere e continua a ispirarmi, però ne ho alcune altre nel cassetto con l’idea di farne un progetto più completo e omogeneo. In questo caso, scrivendo io per Lo Spazio Bianco (www.lospaziobianco.it) un sito di critica fumettistica e prospettandosi la chiusura della serie di Rat-Man ho pensato di cogliere al volo l’occasione e di pubblicare la canzone come omaggio al topo e al suo autore sul sito.
Sono in programma date nelle quali poter ascoltare “Il rito della città” live?
Al momento no, ma stiamo organizzando un piccolo tour per l’inizio del 2018.
Domanda Nonsense: rimanendo in tema fumetti, qual è stato, da bambino, il primo personaggio di cui ti sei innamorato e che avresti voluto incarnare?
Corto Maltese. Avevo 5 anni. Non sapevo quasi leggere ma guardavo le figure, solo quelle dove era disegnato lui. Temo di averlo voluto incarnare per tutta la vita e così, non so quanto inconsciamente, mi son fatto crescere due grosse basette simili alle sue e giro con cappotti da marinaio. E continuo imperterrito, una volta ogni due anni circa, a rileggere le sue storie.
Intervista a cura di Cinzia Canali