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No Report

No Report – Helmet, il tour del trentennale fa tappa al Bloom

Trent’anni da festeggiare in altrettante città, suonando ovviamente altrettante canzoni. Ha le idee chiare Page Hamilton, mente ed unico membro originario degli Helmet, storica formazione metal proveniente dalla New York più alternativa degli anni ’80. Assurti a buona fama all’inizio degli anni ’90, fertile periodo in cui il boom dei Nirvana fece conoscere al pubblico italiano una miriade di band alternative provenienti da oltreoceano, proprio come il gruppo di Kurt Cobain gli Helmet fanno tappa nello storico locale brianzolo, con un concerto-evento capace di richiamare a Mezzago un buon numero di entusiasti fan della band di Page Hamilton.

Seppur rimasto il solo membro originario, il chitarrista originario dell’Oregon ha saputo nel corso degli ultimi anni riformare una band capace di proseguire con inventiva e coerenza quello stile unico mostrato dagli Helmet dei primi anni ’90, band capace di sfuggire ad ogni definizione con il suo peculiare mix di metal, post punk e jazz, facendo in parte da apripista alla più edulcorata ondata nu-metal nella seconda metà di quel decennio oggi in fase di rivalutazione.

Page Hamilton

Ad ogni modo, l’attuale formazione con il funambolico Dave Case al basso, Dan Beeman alla chitarra ed il devastante Kyle Stevenson dietro le pelli non è affatto da meno rispetto a quella originaria, e la serata del 28 Settembre 2019 al Bloom ne è la piena dimostrazione. In un locale non del tutto gremito ma già caldo in attesa di quella che tutti presagiscono essere una serata esplosiva, la band fa il suo ingresso sul palco poco prima delle 23:00, iniziando a far subito fuoco e fiamme.

La sessione ritmica Case/Stevenson inizia a dar vita a pulsioni frenetiche che procederanno ininterrotte fino alla fine del concerto, mentre dalle chitarre scaturiscono riff massicci e monolitici che quasi fanno scattare subito il pogo. Page Hamilton, che davanti a sé ha due microfoni ed una pedaliera che occupa quasi un quarto del palco, inizia il suo canto rabbioso scatenando urla e applausi dal pubblico che inizia subito a muoversi.

L’atmosfera è rovente: mentre gli Helmet inanellano un pezzo dopo l’altro pescando liberamente dalla propria discografia, il pubblico si scatena ballando e urlando senza freni in preda all’entusiasmo. Il sound della band è perfetto nonostante il muro di suono prodotto dagli ampli, con il volume che intenzionalmente vuole mettere a dura prova le orecchie del pubblico e le stesse fondamenta del locale.

I quattro sul palco condividono l’entusiasmo trasmettendo a loro volta la propria energia al pubblico muovendosi qua e là, esortando i presenti e sudando con loro fino a voler bruciare l’ultima molecola di ossigeno presente nel locale. La scelta della scaletta è azzeccata: l’alternarsi di pezzi più o meno noti consente alla band di valorizzare la propria intera produzione, esaltando i presenti al momento giusto, non appena viene proposto uno dei classici del repertorio (“Unsung” e “Ironhead” su tutti) o un assolo con cui fare compiacente sfoggio della propria tecnica strumentale.

Non ci sono pause per quasi metà concerto: come una locomotiva furiosa, gli Helmet macinano note e riff nell’entusiasmo generale, prendendosi una pausa solamente per salutare il pubblico, scusandosi per il fatto di conoscere in italiano solo qualche parolaccia e locuzione assai colorita, che non mancano di declamare – con ottimo accento, diciamolo – fra le risate generali. La sala del Bloom ormai è ridotta ad un girone infernale, fra pogo, musica assordante e qualche goffo tentativo di stagediving.

Nel mentre, gli Helmet a tratti rallentano un attimo il ritmo, incantando con qualche divagazione a metà strada fra jazz e blues e continuando a ripercorrere trent’anni di carriera: il pubblico si gode la serata con entusiasmo e la sua vicinanza carica ancor di più gli Helmet, confermando ancora una volta l’atmosfera “familiare” del Bloom, luogo come sempre capace di mettere a proprio agio i suoi ospiti. La serata prosegue fino ai saluti di fine main set, con Page e soci che stringono le mani a tutto il pubblico delle prime file. Non finisce qui ad ogni modo, poiché la band rientra senza farsi troppo pregare, sparando le proprie ultime cartucce con quattro tiratissimi encore che chiudono la serata.

Con un concerto in grande stile, usciamo madidi di sudore e nel contempo estremamente soddisfatti: gli Helmet hanno onorato come meglio non avrebbero potuto il loro trentennale di carriera, mentre il caro vecchio Bloom ha inaugurato alla grande una stagione che si prospetta fra le più ricche ed interessanti degli ultimi anni.

 

Setlist della serata:

  1. Drunk in the Afternoon
  2. Renovation
  3. Red Scare
  4. Bad Mood
  5. Exactly What You Wanted
  6. Your Head
  7. Give It
  8. Bad News
  9. Taken
  10. Wilma’s Rainbow
  11. Welcome to Algiers
  12. Better
  13. Enemies
  14. Birth Defect
  15. Sam Hell
  16. Life or Death
  17. Unsung
  18. Beautiful Love
  19. Army of Me (cover Björk)
  20. Blacktop
  21. Symptom of the Universe (cover Black Sabbath)
  22. (High) Visibility
  23. Swallowing Everything
  24. In Person
  25. Driving Nowhere

Encore:

  1. I Know
  2. Ironhead
  3. Just Another Victim
  4. In the Meantime
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