Clima da estate torrida e afosa, quello che ci accoglie al Magnolia in occasione del ritorno di Kurt Vile, il geniale cantautore americano dall’indole giramondo, che ancora una volta non si lascia sfuggire l’occasione di una data in Italia: ciò nonostante, il pubblico giunto per assistere alla performance dell’artista di Lansdowne attende disciplinato l’inizio del live, godendosi l’ambiente estivo del Magnolia ed ingannando l’attesa con il live di Jorge Elbrecht, artista poliedrico che accompagna Vile in tutte le date di questo tour. Il live, a dire il vero, non sembra esprimere al meglio le potenzialità di Elbrecht, che offre un mix di performance visuale accompagnato da una sorta di “infermiere tuttofare” uscito da una clinica psichiatrica e da una brava vocalist di bianco vestita, il cui volto è coperto da un’inquietante maschera rotta: il trio ci mette energia e le musiche sembrano interessanti – un mix di EBM e goth – ma purtroppo la resa sul palco principale del Magnolia non convince, principalmente per via di suoni troppo confusi, nei quali svaniscono anche le voci. Da riascoltare in un contesto più raccolto, perché ciò che abbiamo ascoltato online il giorno seguente mostra assai meglio le doti di questo trio.
È alle 22 esatte che Kurt Vile fa il suo ingresso sul palco, birra in mano ed aria sorniona, accompagnato subito dopo dai fidati Violators. Un breve saluto al pubblico, ed ecco che il viaggio incomincia con “Loading Zones”, primo single di successo tratto dall’ottimo “Bottle It In”: il tocco e gli arpeggi sono inconfondibili, ed il numeroso pubblico già si esalta per un Vile che regala già grandi emozioni, giocando con le distorsioni e divertendosi con i suoi compagni di viaggio.
Le interazioni con il pubblico sono poche per ora, con Kurt concentrato a suonare i propri strumenti – abbiamo perso il conto dei cambi di chitarre avvenuti nel corso della serata – ma in fondo non è un problema: è un tipo di poche parole Kurt, un musicista pratico che bada molto alla sostanza ed ha sempre mostrato a tutti un atteggiamento coerente da prendere o lasciare, ed è inevitabile optare per la prima opzione.
Ciò che da subito apprezziamo sono anche le piccole ma significative variazioni di stile che di tanto in tanto il cantante/polistrumentista si diverte ad imprimere alle proprie canzoni, giocando a spaesare inizialmente i presenti, per poi entusiasmarli non appena viene riconosciuto il brano: che siano poche parole parlate o canticchiate per introdurlo, piuttosto che una variazione nel sound, il trucco si ripete e riesce più volte durante il concerto, per la gioia dei presenti che, in più occasioni, strappano un timido ringraziamento a Kurt.
Se in “Jesus Fever” e “Yeah Bones” assistiamo ad un certo indurimento del sound, coi nostri che si divertono palesemente a picchiare sulla strumentazione, in altri come “Girl Called Alex” o “Cold Was The Wind” Kurt si scioglie dando sfogo alla sua anima cantautoriale incredibilmente intensa, percepita da tutti i presente al di sotto della sua scorza asciutta e vissuta, che in molti crediamo figlia di una certa timidezza di fondo.
Tolta la camicia, perché nonostante l’impassibilità anche lì sul palco fa evidentemente caldo, Kurt si esibisce en solo con una splendida “Peeping Tomboy” e, di lì a poco, il set principale si chiude in chiave soft con due dei suoi brani più amati di sempre: “Walkin’ on a Pretty Day” e una rallentata ma ancor più efficace “Wild Imagination”. Set principale breve, ma che soddisfa tutti i presenti: Kurt e i Violators sono un act perfetto e davvero affiatato, capace di suonare meravigliosamente come se fossero su disco, riuscendo comunque a dare quel tocco prezioso in più alle esecuzioni di ogni pezzo.
In ogni caso non c’è tempo per parlare, perché questi ragazzi se non l’avessimo capito non amano farsi pregare, perciò risalgono nel tripudio generale dopo forse neanche un minuto, preparandosi per una serie di encore destinati a mettere d’accordo tutti.
Infatti, la sequenza comprensiva di “Mutinies” e “Pretty Pimpin'” (versione in chiave lenta e pesante, dal mood più notturno rispetto alla versione su disco), conclusa all’insegna della dolcezza con una toccante versione di “In My Baby’s Arms” dà al pubblico forse qualcosa in più di ciò che si aspettava: in un’ora e mezza di concerto, viene infatti completata una scaletta perfetta sia per l’alternarsi di atmosfere, sia soprattuto perché capace tanto di valorizzare l’ultimo album, quanto di coprire il meglio della discografia di Kurt proponendo quelli che ormai possiamo definire i suoi classici. All’artista non resta che chiudere in mezzo all’ovazione dei presenti, facendo dei brevi saluti ed uscendosene con aria soddisfatta: solo verso il finale rivela il suo aspetto più umano, lasciandosi sfuggire un bel pollice alzato e regalando un accenno di sorriso ai suoi fan, che solo dalle prime file abbiamo potuto cogliere.
Poche parole, tanta musica e di nuovo in viaggio verso nuovi orizzonti musicali: è un personaggio originale e senza fronzoli Kurt Vile, artista vero e sincero che vive della propria arte ed attraversa il globo, con il solo scopo di suonare le sue canzoni sfoggiando il proprio inconfondibile tocco sulla sei corde. Di nuovo in viaggio verso destinazioni lontane, in fondo già ci manca ed aspettiamo il suo prossimo ritorno, nel quale avrà certamente nuove storie da raccontarci, a modo suo ovviamente.
Setlist della serata:
- Loading Zones
- Jesus Fever
- Bassackwards
- I’m an Outlaw
- Check Baby
- Girl Called Alex
- Cold Was The Wind
- Peeping Tomboy
- Yeah Bones
- Puppet to the Man
- Walkin’ on a Pretty Day
- Wild Imagination
- Encore #1 – Mutinies
- Encore #2 – Pretty Pimpin’
- Encore #3 – In my Baby’s Arms