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No Review – Behemoth ma non benissimo, il tonfo di “I Loved You At Your Darkest”

Piacciano o meno, i Behemoth sono una di quelle band che fa puntualmente girare la testa al popolo metal, di cui anche l’esponente più antagonista non può esimersi dal premere play al momento di una nuova uscita. E in effetti i polacchi, in un continuo odi et amo, sono riusciti a ritagliarsi un posto di tutto rispetto nel business della musica estrema, rappresentandone oggi una delle formazioni di punta. In una lunga carriera che parte dal black metal di stampo norvegese, lo unisce poi al death metal – tra i primi a tentare l’esperimento – e si evolve nel suono magniloquente e imperioso che ne è diventato marchio di fabbrica, pare che i Behemoth abbiano già detto tutto o quasi: poteva dirsi lo stesso dell’ultimo The Satanist, che invece ha presentato una band in grandissima forma e capace di rinnovarsi ancora. Quattro anni dopo è il turno di una nuova uscita, intitolata I Loved You at Your Darkest. Pubblicato già da qualche mese, la ricezione dell’album è stata decisamente tiepida, l’esatto negativo dei feedback ottenuti per il precedente, e non possiamo che concordare già in partenza: ILYAYD è un disco senza alti né bassi, senza infamia e senza lode. Tutt’altro rispetto a ciò a cui la band ci ha abituato.

Certo, la mal sopportazione per questo o quell’artista è sempre un argomento da prendere con le pinze. In questo caso pare che certo pubblico non veda di buon occhio l’atteggiamento iper-social, quasi da influencer, del frontman Nergal, né le sue dichiarazioni spesso provocatorie verso la propria scena. Pur non prestando orecchio a questi pareri ricorrenti, non si può negare che di provocatorio ci sia molto nei Behemoth di oggi, a partire dallo stesso titolo contenente la parola “love” (anche se, in realtà, è proprio una frase fatta risalire allo stesso Gesù Cristo e quindi aderente all’estetica della band), per finire nei titoli dei brani, spinti e schietti in maniera plateale, e in alcune soluzioni sonore, come nel caso del coro di voci bianche utilizzato in “God=Dog”. Proprio questo brano, non a caso scelto come singolo apripista, rappresenta i concetti di cui stiamo parlando; rappresenta però anche il contenuto musicale, quello di cui alla fine bisogna discutere, e che non è per nulla entusiasmante. Il brano, come l’album, non è brutto – parliamo pur sempre di una band di professionisti – ma è del tutto dimenticabile, insipido, finisce e non ti è rimasto nulla. Che, in fin dei conti, crediamo sia proprio il contrario di quello che i Behemoth vogliono esprimere. La produzione è, come e più di prima, bombastica e raffinata, forse troppo, considerando che il suono più grezzo di The Satanist partecipava in maniera considerevole al valore del disco. Ma oltre questo sono i brani a mancare: il riffing è quello di sempre, le batterie di Inferno sono precise e abissali come al solito – meno che per qualche octoban vagamente fuori luogo –, la voce di Nergal è evocativa come di rito. Tutto bello, ma tutto come sempre.

Qualche momento più intenso (“Havohej Pantocrator”) non riesce a tirare su le sorti di un album che manca di peso specifico: non è un caso che a pochi mesi dalla release pare sia più interessante discutere dell’ennesimo post su Instagram di Nergal. I Loved You at Your Darkest è forse il primo passo falso di una band che, al di là delle singole opinioni, ha rivestito e riveste un ruolo di primo spessore e che ha saputo dire molto e molto bene in passato, riuscendo a non standardizzarsi né rinchiudersi in qualche recinto. Non possiamo che sperare che questo calo di idee si risolva, ché lasciarla vinta a chi preferisce il gossip alla musica sarebbe un vero peccato.

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