B di Barcellona
Marzo 2011.
Primo viaggio organizzato in totale autonomia insieme ad alcuni amici. Era più o meno marzo, ultimo anno di liceo.
L’arrivo. Scendo dall’aereo con l’entusiasmo tipico del piccolo adulto che per la prima volta si trova a doversela cavare da solo in terra straniera. Raggiungiamo il centro senza intoppi il che, di per sé, è già considerabile un grande successo. Finalmente fuori. Per strada è ormai buio. Un gran fruscìo di persone mascherate, transenne e musica. È appena finito un corteo di Carnevale. Ora arriva il difficile: trovare il nostro appartamento. Cartina alla mano, ci avviciniamo ad un poliziotto per chiedere indicazioni. Penso “Per fortuna il nostro unico uomo parla spagnolo” e infatti parte all’attacco. “Señor, perdona la pregunta. Nosotrosestamosaquí…” – scambio di occhiate gelide – “Yo sé dóndeestoy”. Molto bene. Vaghiamo, sperando che prima o poi la giusta calle incroci i nostri passi.
La luce del giorno. Partiamo alla scoperta della città di prima mattina. Ore 8.00 ritrovo per la colazione.
Peccato che a quell’ora, in Spagna, per strada non girino nemmeno i camion della spazzatura. Ad un tratto, come un miraggio, troviamo un bar aperto. Probabilmente deve ancora chiudere. Caffè con leche, brioche confezionata e una coppia di giovani mascherata. Lui è vestito da coniglio rosa gigante. Ne conservo tutt’ora un vivido ricordo.
La Rambla. Lì, a Barcellona, mi rendo conto per la prima volta di cosa significhi essere europea. Ricordo la sensazione di sentirsi stranieri, ma a casa propria. È tutto nuovo, eppure nulla è davvero sconosciuto. La Rambla è il cuore della città: 1 km e mezzo di paseo, da Plaça Catalunya fino al porto. È il luogo dove l’aria genuina spagnola – con i colori e gli odori del mercado (La Boqueria), le bancarelle, i titoli di giornale appesi nelle edicole – si mischia a quella dei bar e dei ristoranti acchiappa-turisti. Le persone non hanno provenienza, intorno a noi si parlano decine di lingue diverse e a nulla valgono i nostri sforzi di non farci convincere a comprare almeno un braccialetto portafortuna.
Il Piccolo Principe. Per me Barcellona rappresenta il passaggio all’età adulta, almeno in fatto di viaggi. È stata il primo metro di paragone, quella città un po’ mamma che mi ha insegnato a riparare le falle della pianificazione, mi ha salutato contenta ma un po’ preoccupata, mi ha fatto capire che avevamo ancora qualcosa da dirci. Barcellona è come Il Piccolo Principe, non puoi leggerlo una sola volta. E infatti, nel 2012, eccomi di nuovo lì. Ma questa è un’altra storia.
