Anticipato dal singolo “Mazel Tov II”, è uscito a fine marzo, per Musica Altra / Edison Box, Zenith, il nuovo lavoro discografico degli Indianizer, band torinese nata nel 2013.
“Zenith” arriva a distanza di tre anni dal precedente disco, sotto quale aspetto vi sentite più maturi?
Siamo cresciuti per quanto riguarda l’interplay, ovvero quell’intesa a livello inconscio che fa quadrare il cerchio nel momento in cui suoniamo assieme. Credo inoltre che siamo maturati da un punto di vista compositivo: Zenith rappresenta di più, rispetto a Neon Hawaii, il nostro mondo, sia nella forma sia nel contenuto. Che poi sono la stessa cosa! Abbiamo esplorato e delineato maggiormente il sound, ma anche il contenuto dei testi.
I brani contenuti in questo nuovo lavoro come hanno preso forma?
E’ stato un lavoro corale. Si potrebbe dire che nella fase iniziale è stata una vera collaborazione a otto mani. Le jam session nate spontaneamente in sala prove sono state successivamente indirizzate verso una forma canzone che ogni tanto rispecchia le strutture più canoniche, altre volte prende una direzione imprevedibile e inedita anche per noi. Sebbene sia un disco più incentrato sul suono che sulle canzoni (non è un disco d’autore, bensì un lavoro di gruppo), abbiamo mantenuto il focus sulle melodie, spesso supportate da riff che sono parte integrante del messaggio. Il punto di svolta è stato l’aiuto esterno e il commento di amici di cui ci fidiamo molto: penso a Stefano Isaia e Maria Mallol Moya (Movie Star Junkies, Lame, Gianni Giublena Rosacroce).
Rock, folk sperimentale, psichedelia onnipresente, “Zenith” è ricco di suoni, più o meno improbabili, che insieme funzionano benissimo. È prevalso l’istinto o la meticolosità?
Sicuramente l’istinto, ma in fase di mix abbiamo lavorato in maniera certosina sui suoni e sugli arrangiamenti. Specialmente per quanto riguarda i sound effects e gli elementi sonori non prettamente musicali. È un disco ricco di suggestioni da cartone animato, commentatori argentini di corse di cavalli, fucili ed elicotteri, risate sataniche e personaggi schizofrenici.
Testi in inglese, spagnolo e addirittura in un idioma inventato…
È stato molto eccitante sperimentare nuove lingue e nuovi linguaggi: il testo di Hermanos Nascondidos è un riadattamento di una poesia di Bertalicia Peralta, poetessa panamense (Nascondidos è un’italianizzazione della parola Escondidos). L’idioma inventato è puramente onomatopeico, ma ci permette di non appartenere a nessuna “fazione”. È la nostra lingua aliena, un modo per provare a guardare la Terra dall’alto, anche se solo per il tempo di una canzone.
Senza la sperimentazione cosa rimarrebbe degli Indianizer?
Il groove! Zenith, e anche il live che stiamo portando in giro, fanno perno sulla pulsazione ritmica, costante e implacabile. È l’insegnamento che abbiamo ricevuto dalla musica africana e latino-americana. C’è un cuore pulsante che non smette mai di battere.
Domanda Nonsense: a che età le vostre famiglie hanno compreso che con voi sarebbe stata una dura battaglia?
Forse non l’hanno ancora capito!
Intervista a cura di Cinzia Canali