Si chiama “Legna per l’inverno” ed è uscito il 1° marzo per Disordine Dischi: si tratta del nuovo disco del cantautore napoletano Verrone, già autore e bassista del gruppo Ventinove e Trenta, che in quest’ultimo lavoro parla della distanza da casa nel duplice significato di condizione e fuga. Lo abbiamo incontrato per chiedergli cosa c’è dietro le canzoni di “Legna per l’Inverno”.
Intervista a cura di Chiara Trio
Sei autore e bassista dei Ventinove e Trenta, ma scegli anche di proseguire con una carriera solista. Cosa cambia dalla dimensione del gruppo alla dimensione che vede Verrone protagonista?
Certamente una maggiore consapevolezza e responsabilità delle scelte artistiche, sia testuali e tematiche che di arrangiamento. In un contesto di band tocca cercare un compromesso tra le volontà e i gusti di tutti i componenti, che poi è anche il bello di suonare insieme ad altri in un rapporto di collaborazione paritetica: senza gerarchie di sorta viene fuori l’anima del progetto corale oltre i singoli che ne fanno parte.
Di solito Napoli è molto presente nella musica dei cantautori che lì sono nati e vissuti. Lo abbiamo visto appieno con l’esperienza che da poco si è conclusa di Geolier a Sanremo. Quanto c’è di Napoli nel tuo disco?
Non credo di essere molto d’accordo per quanto concerne la singola vicenda di Geolier a Sanremo. La canzone, benché in napoletano, era assolutamente svincolata da qualunque riferimento spaziale e temporale, raccontando di due amanti sospesi tra desiderio e abbandono. Per quanto concerne il mio disco, Napoli è semplicemente il posto cui tornare. Dell’album fanno parte canzoni pensate tutte lontano da casa, in una dimensione di viaggio, oppure scritte ricordando altri luoghi. Napoli è
indirettamente la luce in fondo al tunnel, ma di certo non per quello che rappresenta culturalmente e artisticamente.
Alla luce dell’ultimo Festival, pensi ci sia ancora un pregiudizio nei confronti di chi viene dal sud e sceglie di non trascurare la napoletanità nella sua arte?
Credo sia molto difficile giudicare il fenomeno nel suo complesso analizzando esclusivamente quanto accaduto a Sanremo. Guardando ai fatti, è stato concesso a un concorrente di partecipare con una canzone quasi integralmente in dialetto, facendo anche leva sulla sua esposizione mediatica. Poi, è stata posta l’attenzione sul significante del suo testo e, infine, è stato montato un dualismo con Angelina Mango che ha tenuto l’audience in sospeso fino all’ultimo secondo. Il ragazzo ha risposto sempre con grande dignità, in modo professionale e raccogliendo tanti consensi, per il suo attaccamento alla lingua oltre che per la sua semplicità e la sua onestà. Se discriminazione c’è stata, l’ha (volutamente o meno, provocatoriamente o meno) innescata e poi sostenuta la macchina Sanremo, che ha esposto una produzione in dialetto locale a un pubblico generalista di portata nazionale. Quello che so è che il rap è un genere molto legato alle origini e chi lo ascolta ne rispetta l’essenza. Geolier scrive in napoletano ma, anche per questo stesso motivo, è ascoltato soprattutto a Milano, Roma e Torino, prima ancora che nella sua città.
Come il progetto grafico ha cercato di esprimere quello che volevi trasmettere attraverso il tuo ultimo lavoro?
Per la veste grafica del disco mi sono affidato agli scatti di un’artista americana, Laura Zimmerman. La sua produzione si basa su una tecnica nota come ICM (intentional camera movement) che produce immagini molto evocative caratterizzate da sfocature, distorsioni, sovrapposizioni di colori e contorni. Le ho trovate molto adatte a illustrare quanto abbiamo cercato di rendere coi suoni degli arrangiamenti, al fine di costruire atmosfere oniriche e rarefatte che ben si sposassero con le tinte malinconiche e riflessive delle canzoni.