Quest’anno la programmazione dei concerti al Teatro Antico di Taormina sta portando in Sicilia il fior fiore delle band internazionali, puntando su una proposta ben calibrata e orientata ad offrire la storia della musica, piuttosto che le hit del momento come è avvenuto negli ultimi anni. In questo, tutti i promoter coinvolti nell’organizzazione dei concerti siciliani, stanno mostrando il loro impegno.
Il 23 Giugno è toccata ai Jethro Tull, che hanno portato a Taormina i loro 50 anni di storia, raccontandoceli brano per brano, rivivendo con noi nel bene e nel male quello che sono stati questi anni di onorata carriera, una carriera incentrata sul flauto traverso, strumento insolito, che è diventato il vero protagonista di brani che non hanno mai disdegnato la contaminazione dei generi, affondando le proprie mani anche in ambiti poco battuti quali la musica classica. Ed è proprio questo fondere il classico col folk, col blues degli inizi, col rock, col progressive e la musica etnica, che molti anni fa ha fatto emergere questa band nata in Inghilterra e l’ha portata in giro per il mondo.
Dopo numerosi avvicendamenti all’interno della formazione, che ha sempre ruotato intorno alla figura carismatica di Ian Anderson, la band fa tappa a Taormina portando una ventata di buona musica e di suoni che il mercato discografico sembrava aver dimenticato, mentre l’affluenza di pubblico che ha affollato il teatro ci ha dimostrato quanto fossero ancora necessari, soprattutto per chi non si accontenta delle radio e degli algoritmi, ma vuole il meglio dalla musica. Sottolineo questo, perché il pubblico era quanto mai variegato, segno che in questi cinquant’anni la band ha saputo mantenere vivo l’interesse anche delle generazioni più giovani, corposamente rappresentate a teatro, con una trasversalità che solo in pochi si sono potuti permettere.
La band entra sul palco senza troppi fronzoli, correndo spedita sulla scena quasi a voler rimarcare che gli anni passano, ma la loro grinta resta intatta. Dietro di loro, una scenografia essenziale (se tale può definirsi quella alle spalle del palco di Taormina) rende onore alla vera attrazione della serata, i Jethro Tull, che uno per uno, brano dopo brano, hanno avuto modo di prendersi la scena e mostrarci tutto il loro talento. Ogni assolo di ogni singolo musicista è stata pura magia. Le parole di Anderson che ci spiegava brano per brano ciò che ogni singolo tassello della loro storia rappresentava per loro, ha fatto il resto.
Mai un concerto ha tenuto così costantemente alta l’attenzione della platea come quello dei Jethro Tull a Taormina. Mentre la cittadina era invasa dalla processione e i fuochi d’artificio si stagliavano in cielo in segno di festa, noi eravamo avvolti in una bolla magica, attenti a non perderci una parola e osservando ogni singolo strumento. C’è tempo di scherzare, ma forse non troppo, quando Ian Anderson ricordando Clive Bunker, lo storico batterista della formazione, definendolo come un grande batterista, dotato di una forte personalità mascolina, ci confida che presto i batteristi non esisteranno più e che saranno sostituiti da macchine, salvo poi sottolineare che Clive sia ancora vivo e vegeto e che quella a cui avevamo appena assistito non era certo una dedica funebre, anzi.
Andando avanti col concerto, ogni volta che partiva un assolo di chitarra, ci veniva da ringraziare il cielo per avere gruppi storici del calibro dei Jethro Tull ancora in giro a ricordarci che fare musica in maniera diversa e portare una proposta alternativa al grande pubblico fosse ancora possibile.
Anderson, introducendo un pezzo che dichiara di aver preso in prestito da Bach, ci confida di amare da sempre i suoi ritmi sincopati, che spesso ha utilizzato nei brani, prendendolo come punto di riferimento nella scrittura. L’esecuzione di “Bourée” è mozzafiato e sul finale rimaniamo incantati osservando le magie del bassista.
È il momento di un pezzo che all’inizio aveva messo in difficoltà Anderson, perché toccava il tema della spiritualità. Parlo di “My God”, che viene introdotto da un inaspettato attacco di piano eccezionale.
Lo spettacolo è diviso in prima e seconda parte e dopo circa 15 minuti di pausa si va verso il finale con brani come “Pastime with Good Company”, passando da quella che Anderson dichiara essere la sua preferita, ovvero “Heavy Horses”, per chiudere con l’attesissima “Aqualung” che il pubblico accoglie alzandosi in piedi con un’ovazione.
Definire quello che si è appena concluso come un semplice concerto sarebbe riduttivo. Grazie alle continue spiegazioni di Anderson è stata una vera e propria lezione di storia della band e della musica in generale.
Chi non c’era ha davvero perso molto.
Report a cura di Egle Taccia