“SERENATA PER CHI È NERVOSO” è il nuovo disco di inediti di LUCA CAROCCI, pubblicato per l’etichetta FioriRari.
Anticipato a giugno dal singolo e video “Ogni volta che dormo da sveglio”, “Serenata per chi è nervoso” è il terzo album firmato da Luca Carocci, interamente prodotto artisticamente dallo stesso, in cui figura anche la presenza di voci come quelle di Ilaria Graziano e di Alessandro Pieravanti e la partecipazione di musicisti come Roberto Angelini, José Ramon Caraballo Armas, Andrea Ruggiero.
Il nuovo disco arriva dopo l’ottimo riscontro del precedente “Missili e Somari” (2016) che ha visto la produzione esecutiva di Pietro Sermonti e artistica di Filippo Gatti, oltre alla presenza di ospiti d’eccezione tra cui Roberto Angelini, Margherita Vicario, Fabio Rondanini, Francesco Forni, Bianco.
Autore, musicista, produttore e compositore – tra le ultime colonne sonore realizzate figurano le musiche originali del film “Va Bene Così” (2021) di Francesco Marioni – Luca Carocci ci apre la porta di un altro capitolo della sua carriera, ricco di vita vissuta e intimità.
Intervista a cura di Egle Taccia
“Serenata per chi è nervoso” è il tuo nuovo album. Mi racconti com’è nato e di cosa vuoi parlarci negli otto brani che lo compongono?
A un certo punto ti vengono in mente delle canzoni, delle parole e dei concetti e cominci a buttarli giù. Quando scrivo, il ragionamento parte sempre da un paio di canzoni nelle quali non ho ancora ben capito cosa stia succedendo. In realtà, visto il momento di introspezione, una parte dell’album è stata ultimata in questo periodo di chiusure, parla di quanto sia giusto essere come si è, nessuno dovrebbe sentirsi in colpa per come è.
Mi hai detto che tutto parte di solito da due brani. Nel caso specifico quali sono i brani da cui è partito tutto?
Il primo brano di questo disco che ho scritto è stato “Aspetterò febbraio”, a seguire c’è stato “L’insuccesso mi ha dato alla testa” e poi “Roma/Milano”, queste sono state le prime tre canzoni che hanno composto in qualche modo l’album. Le altre guardano lo stesso oggetto da prospettive differenti, ma è abbastanza evidente di cosa parli il disco.
Hai voluto occuparti personalmente della produzione artistica di questo lavoro. Come mai hai scelto di lavorare da solo? È una scelta dovuta alla pandemia o, indipendentemente da questo, volevi che i suoni fossero tutti tuoi?
Ti dico la verità, era da qualche tempo che sia Angelini che è il mio discografico, che altri amici artisti con i quali ho collaborato (ho suonato in tanti dischi non miei), mi dicevano che i provini erano più magici del lavoro fatto in studio. Suonando un po’ tutti gli strumenti, quindi, ho iniziato giocando, ma in realtà poi mi sono affezionato a quei suoni, perché sono super naturali, non c’è niente di costruito in quel disco. L’ho registrato qui, dove sono seduto adesso, e mi sembrava che ci fosse il giusto respiro, il giusto spazio.
Nel disco possiamo trovare molti ospiti. Come sono nate queste collaborazioni?
Sono nate proprio perché sono persone che frequento, che vedo spesso. Per un periodo, con Roberto, con Pier e anche con Ramon, ci vedevamo ogni mercoledì a casa mia per passare un pomeriggio insieme, suonare e fare varie cose, quindi inevitabilmente, essendo anche il mio discografico, Roberto, ma anche Pier o Ramon, mi fanno ascoltare le loro cose ed io faccio lo stesso con loro. Ho deciso di far partecipare persone che suonassero gli strumenti che io non suono, come le slide di Angelini o la tromba di Ramon, e poi anche per piacere, è nato tutto in maniera naturale, per osmosi, siamo cascati ognuno nelle cose dell’altro alla fine.
C’è un aneddoto legato a qualcuno di loro che vorresti raccontarci?
Non essendoci un nome, qualcuno che sono andato a pizzicare per gloria, ce ne sono talmente tanti di aneddoti. È come quando fai una vacanza di una settimana in un posto, hai più racconti che se ci vivessi per tre anni, perché in quel caso diventa vita naturale. In realtà non ho degli aneddoti particolari che mi vengano in mente in questo momento. È banale, ma è la verità.
Dicendolo sorridi, ne deduco che la scrittura di questo album dev’essere stata piacevole.
Adesso sì, perché è finito. In realtà fino alla data della presentazione ero molto preoccupato, come lo sono tutti quando fanno uscire le proprie cose, c’è sempre la paura di deludere chi ci ha lavorato, chi ti sta vicino e tutta una serie di altre cose, poi invece mi sono reso conto che questo è un disco di parole e quindi ci mette un po’ ad arrivare, non è un disco accattivante al primo ascolto o che può competere con quello che c’è in giro oggi, però magari c’è qualcuno che ha bisogno di ascoltare queste canzoni.
Qual è la preoccupazione più grande per un artista nel fare uscire un disco in questo periodo storico?
A parte il periodo storico di cui non mi sono preoccupato molto, la preoccupazione più grande per me quando esce un disco è che questo disco mi rappresenti, che sia aderente a quello che penso. Nel passato, onestamente, ho anche fatto uscire cose di cui non ero molto convinto e che avrei fatto in maniera diversa. Fare un disco per un artista è come prendersi una laurea, un master, è un percorso formativo, se lo vivi in maniera serena, e anche di curiosità. Questo disco mi ha aperto la possibilità di poter fare un po’ quello che mi pare, forse è meglio.
Perché l’insuccesso ti ha dato alla testa?
L’insuccesso mi ha dato alla testa perché è inebriante. È più inebriante l’insuccesso che il successo, nel senso di quello che deve ancora succedere, non di quello che è accaduto e che rimane cristallizzato e che devi proteggere. La musica è una cosa liquida, credo che possa succedere, se non è ancora successo. Se fosse già successo forse avrei delle responsabilità in più per cui forse non succederebbe di nuovo. Non so.
“Aspetterò febbraio” ci parla del Carnevale e delle sue maschere. Cosa ha ispirato il brano?
Mi ha ispirato il fatto che il Carnevale, quando ero bambino, era un momento di grande felicità, a differenza di Halloween, che purtroppo non amo molto, perché non è una festa che mi appartiene. Essendo anche di un paese, Halloween per me è la festa dei morti e non ci si maschera durante la festa dei morti, almeno da bambino non mi ricordo che ci si mascherasse, al massimo si andava a Messa. Inoltre, novembre non è un periodo dell’anno che amo particolarmente, anzi forse è il mese che detesto di più in assoluto, perché mi mette di fronte al fatto che sia veramente finita l’estate. A novembre non scappi, devi mettere il maglione, fa freddo, fa notte presto, mentre il Carnevale è quasi una rinascita. A Carnevale si brucia l’inverno, si dà fuoco a tutto quello che è vecchio, ci si veste da chi si vuole, non necessariamente da morti o da gente scannata, come si fa ad Halloween, con le ragnatele e le zucche, ma ci si può vestire anche da principe, da bambino o da indiano, che era uno dei miei costumi preferiti, insieme a quello di Sandokan. Si può essere chi si vuole, anche un travestito a Carnevale non viene notato da nessuno, nonostante stia vestendo i panni di se stesso. Dà una grande possibilità, secondo me è un rito liberatorio.
Hai viaggiato in giro per il mondo, sei stato praticamente ovunque. C’è un luogo a cui sei legato particolarmente o un viaggio che ti ha in qualche modo segnato?
Il primo viaggio sicuramente, perché è come il primo bacio. Ti butti nel vuoto, ti rendi conto che lasci tutto quello che conosci e vai in un posto dove nessuno sa chi sei e all’inizio soffri, ti senti spaesato, ti senti fuori dalla tua zona di conforto, se hai bisogno di aiuto non sai di chi fidarti, non sai chi chiamare. Dall’altra parte ti dà una grande forza, perché cosa ti può succedere? In realtà quello che ti può succedere è di incontrare te stesso, di acquisire una consapevolezza che prima non avevi. Una volta fatto il primo viaggio non c’è mai un secondo primo viaggio, perché non è il luogo dove vai, è proprio il fatto di muoverti per la prima volta da casa e andare in un altro posto a sconvolgerti la vita, soprattutto se ci passi tanto tempo e quindi, a parte le palme e tutte quelle cose che si possono ripetere, la sensazione di arrivare all’aeroporto di Colombo, non conoscere nessuno e avere 21 anni me la ricordo perfettamente.
Domanda Nonsense: Roma o Milano?
Roma e Milano, Roma esiste perché c’è Milano. C’è sempre un posto in cui si va e uno in cui si torna e quando ti stacchi dal posto in cui stai lo vedi meglio. È difficile guardare il luogo dove vivi se non ti sposti da dove sei, però dovendo scegliere sicuramente Roma, Artena.