“Isolation Culture” è il secondo album degli His Clancyness, uscito su Maple Death Records / Tannen Records (Eu/Uk) e Hand Drawn Dracula (ROW). Il progetto, nato come avventura solista di Jonathan Clancy, durante il tour del primo album si è trasformato in una vera e propria band, i cui componenti sono personaggi già noti nell’ambiente alternativo come Jacopo Borazzo (Disco Drive), Giulia Mazza (A Classic Education) e Nico Pasquini (Buzz Aldrin, Stromboli). Questo disco vanta collaborazioni importanti con professionisti del calibro di Matthew Johnson (o MJ com’è conosciuto in quanto front man degli Hookworms) che ha seguito le registrazioni presso i Suburban Home Studio a Leeds, e Stu Matthews (Beak, Anika, Portishead) che si è occupato invece di quelle all’Invada Studio dei Portishead.
Li abbiamo incontrati per conoscere meglio il progetto.
Mi raccontate la storia del gruppo?
Il gruppo è nato tra la fine del 2009 e il 2010 semplicemente perchè in quel periodo suonavo in un altro gruppo che si chiamava A Classic Education, ma a casa però continuavo a registrare cose mie. Dei miei amici, che sono Jukka Reverberi dei Giardini di Mirò e il suo amico Tommaso, avevano appena aperto un’etichetta e dal nulla mi hanno chiesto: “Ma perchè non fai una cosa per noi?” e da lì ho dovuto dare un nome a questi demo che avevo e così è uscita la prima roba. In quel momento è nata l’esigenza di suonare dal vivo e visto che io e Jacopo ci conosciamo da tantissimi anni, lui era il batterista dei Disco Drive, da quel momento è entrato nel gruppo e pian piano negli anni la band si è evoluta , fino ad oggi dove siamo un gruppo vero e proprio. Siamo in 4: Jacopo, io, Giulia e Nico. Questo disco nuovo è il primo disco in cui fondamentalmente lavoriamo tutti insieme, è arrangiato assieme, ecc. ecc.
Mi parli anche dell’etichetta per cui è stato pubblicato il disco?
Ho un’etichetta che si chiama Maple Death Records, nata da un anno e mezzo circa per un’esigenza che avevo da tantissimi anni, ovvero quella di cercare di esportare, o comunque di fare uscire fuori, musica che a me piace e che secondo me meritava di più. La nostra scelta poi di fare uscire il disco sulla nostra etichetta, era nata anche per poter controllare meglio tutto e riuscire a gestire meglio le cose e alla fine, secondo me, fare le cose da soli è certamente un po’ più difficile, ma alla fine riesci ad avere maggiori soddisfazioni.
Il disco ha dei suoni che riportano in qualche modo agli anni ’70, psichedelici e anche un po’ art. Come nasce questa scelta di ripescare delle attitudini dal passato?
E’ un po’ un insieme delle influenze varie che abbiamo tra di noi, sicuramente tutti quanti siamo degli ascoltatori di rock a 360° e sicuramente dei classici. Non credo ci sia stata la scelta di voler suonare come un gruppo anni ’70, anzi, tra l’altro non credo che suoni così, ci sono dei riferimenti, ma tutti ci vedono delle cose che magari tu non ci vedevi nemmeno. Ci hanno detto ad esempio che è molto ispirato dagli anni ’80 inglesi e a me fa impressione, perchè non ci avrei mai pensato, non lo sento molto inglese, mentre c’è gente che lo sente inglese, gente che dice che sembriamo i Joy Division, cosa che non c’entra niente, a tutti noi piacciono molto, ma non credo che ci sia un’influenza sugli His Clancyness, poi alla fine ognuno vede quello che ci vuole vedere.
Ho letto che avete voluto realizzare delle anti hits. Come mai?
Quello era solo un gioco di parole, nel senso che secondo me per le persone che siamo, col tipo di ascolti che abbiamo, siamo costantemente in bilico tra la canzone pop e quella da sperimentazione; basti pensare a cosa stavamo ascoltando oggi in furgone, sempre cose diverse, e la nostra idea è quella di cercare di mettere assieme questi due mondi, nel senso che poi spesso, anche nelle nostre canzoni , c’è sì strofa e ritornello, ma anche molto spazio per altro, per sperimentazioni e stratificazioni di suono e piccoli accorgimenti per ovviare alla classica forma canzone.
All’album hanno collaborato dei grandi artisti, ce ne parlate?
Abbiamo registrato il disco a Bristol. Quando decidi di dover registrare alla fine ti ritrovi a pensare a tutte le cose che vorresti che finissero dentro l’album e poi alle proposte e alle persone che hai incontrato. In quel caso lì non mi ricordo neanche com’era nata l’idea… Geoff Barrow dei Portishead, ci aveva consigliato di andare in questo studio che è suo, e invece, riguardo all’altro studio di Leeds, era stato un produttore inglese, che era un nostro fan e che è venuto a vederci quando abbiamo suonato a Leeds, che ce lo ha suggerito ed abbiamo cominciato a parlarne. Poi, quando ci siamo trovati a mettere su carta le idee che avevamo, si sono rivelate le due proposte che ci convincevano di più, era un’idea un po’ matta quella di registrarlo in due studi diversi, ma alla fine erano vicini e abbiamo detto “andiamo lì, facciamo qualcosa”, e abbiamo scelto i pezzi in base a quello che noi pensavamo sarebbe stato l’approccio dei due studi, alcuni erano per uno studio e altri per l’altro e alla fine tutto è andato bene, fin troppo liscio.
Come viene trattata la cultura in Italia?
Mah, è chiaramente un discorso lungo ed è difficile rispondere. Forse a volte la nostra frustrazione è che viene un po’ ghettizzata, messa da parte, basti pensare soprattutto alla musica nei giornali, anche banalmente, la musica spesso non è alla sezione cultura, ma è alla sezione spettacolo, vicino ai programmi televisivi, non è comunque considerata come sono considerati i romanzi o altre cose.
E’ una domanda grossa, è difficile rispondere. In Italia viene trattata in maniera molto tradizionalista, la cultura alta è una cosa e la cultura, come può essere quella che noi intendiamo come arte underground, viene considerata come una cosa pop, meno importante, come se fosse più stupida, e così appunto viene trattata sui giornali, la musica viene un po’ lasciata da parte. Se compri il Guardian vedi che la musica è una parte centrale per la cultura anglosassone e questa cosa si sente e si vede quando stai in Inghilterra o in America. In Italia secondo me è molto più marginale e questo fa sì che si creino quelle situazioni per cui vengono a nascere dei meccanismi che potrebbero essere molto più semplici e invece non lo sono per colpa di una mentalità un po’ diffusa per cui la musica viene percepita come una cosa non importante, sostanzialmente non di valore, che quindi arriva ultima nella scaletta. Questo è un peccato.
Voi avete girato praticamente ovunque e avete suonato in palchi importanti. Che idea vi siete fatti di come viene percepita la musica all’estero e su cosa si concentra maggiormente l’attenzione del pubblico?
Non lo so, secondo me all’estero si fanno meno paranoie rispetto all’Italia, soprattutto non hanno il complesso di inferiorità che a volte hanno le band qui, che stanno mille ore a pensare “ma sto facendo l’accento giusto o sbagliato”. Basti guardare le band scandinave, che comunque non cantano in inglese tradizionale con l’accento anglosassone, ma riescono ad avere successo molto più di altre. Secondo me è una questione di cultura, all’estero probabilmente c’è un po’ più di cultura rispetto a quello che stiamo facendo noi, rispetto al rock che vogliamo proporre noi e per rock appunto non intendo i Joy Division, i Clash, ecc. ma, andando un po’ più sullo specifico, le sottoculture che amiamo noi e di cui poi ci sentiamo partecipi. In Italia siamo in pochi a seguire questo tipo di musica, quindi qui è normale il commento al disco in cui ci dicono che sembriamo i Joy Division, per dire, soltanto perchè qualcuno ha sentito un po’ di delay in una canzone, mentre all’estero, sto generalizzando, c’è più cultura rock e quindi ti possono fare un riferimento con la lente di ingrandimento e contestualizzato.
La cosa più strana o assurda che vi è capitata in tour?
In tour ne capitano sempre di tutti i tipi. Una volta a Reading, a un concerto, avevamo fatto il soundcheck, eravamo pronti a partire, era tutto pronto per suonare, ma improvvisamente hanno chiuso il locale perchè c’era una perdita d’acqua sul bancone. Ci hanno dato i soldi, abbiamo smontato e ce ne siamo andati senza aver suonato, questa è stata una cosa un po’ strana, assurda e deprimente. In tour c’è sempre un equilibrio fragile, tu sei lì per fare qualcosa per cui ci sono un sacco di variabili che possono andare male e che contribuiscono poi ad avvelenare l’aria. Bisogna sempre cercare di tenere sempre lo spirito positivo. E’ una cosa bella, divertente, entusiasmante andare in tour, ma sicuramente da fuori non si riesce a cogliere la fatica e l’equilibrio psicologico di una cosa del genere, che è molto fragile. Ci sono alti e bassi, l’umore può cambiare in fretta, poi bisogna sempre ricordare che siamo cinque persone in una scatola con le ruote per la maggior parte della giornata. Si sta in giro tutto il giorno, ma tutto si condensa in quei 45 minuti in cui sei sul palco. E’ strano perchè fai tutto in funzione di quello e se poi magari quella sera va anche male, è una serata deludente, non è facile, devi cercare di mantenere l’equilibrio.
Intervista di Egle Taccia