E’ da pochissimo uscito “Apriti Cielo”, il nuovo album di Mannarino, edito da Universal, che è già in vetta alle classifiche italiane. E’ un album intenso, ma gioioso, che porta la romanità di Mannarino verso i lidi della musica brasiliana, sua grandissima passione. Lo abbiamo incontrato alla Feltrinelli di Catania, durante la presentazione dell’album.
So che il tuo album “Apriti cielo” ha un duplice significato nel titolo. Me ne parli?
Sì, ha un duplice significato. Può essere usato sia nell’accezione di invocazione, sia quando succede qualcosa di inaspettato, di scabroso. Per me è importante che il titolo sia così interpretabile, perché nasconde, per chi lo ascolta, già un indizio all’approccio al disco, che è pieno di metafore e in cui molti pezzi sono interpretabili in questo modo.
Il significato di questo titolo è anche questo: il cielo sta lì; le stelle stanno messe a caso, ma noi gli diamo delle forme; le nuvole anche, ma noi gli diamo delle forme… la vita è questa ma sei tu che scegli il significato da darle. Lo scegli dentro di te e poi si riversa anche fuori.
Rispetto ad “Al Monte” ha delle sonorità più gioiose. Cosa ha ispirato questi suoni?
Tony Canto mi ha ispirato questi suoni!
Viviamo un momento storico molto grigio, negli ultimi anni sembra quasi che la gente abbia perso la speranza, si vive anche una sorta di remissività triste… Ho sentito l’esigenza e il dovere di andare a cercare dei colori e dei ritmi che questa speranza dessero, capaci di dare un senso di apertura, come appunto quando si apre il cielo. Quindi sì, ho deciso di prendermi la responsabilità di ricercare la gioia, dopo la demolizione di “Al Monte”, che era un album che parlava di demolizione di concetti culturali, della nostra storia occidentale. In quest’album è come se guardassi quello che c’è al di là del monte, siamo andati alla ricerca dei colori. Come vedi nella copertina ci sono queste bandiere destrutturate, come tagliate, che perdono il loro significato politico e diventano quasi degli stracci di una favela, pronti per essere indossati per un carnevale.
L’album si apre con una canzone d’amore un po’ amara nei confronti della tua città. Com’è Roma oggi?
Roma nella canzone ha un duplice significato, è sia la mia Roma, la mia città, sia la Roma caput mundi dell’impero mondiale occidentale americano. Con le stesse parole puoi leggere le due storie, quella della mia Roma provincia dell’impero e quella di Roma che governa il mondo. Nella stessa canzone le due Rome convivono, ma la mia Roma ne esce distrutta dalla brutalità di un Leviatano violento e straniero, che l’ha convinta e sedotta con l’inganno e poi è finita come è finita, come questa ragazza a cui canto. Da lì parte una fuga con “Apriti Cielo”, canzone che ha sempre due significati, perché ci puoi leggere sia la storia di chi dall’Africa viene qui, che la storia di chi da qui scappa verso l’ Africa per salvarsi la vita in un altro senso. Fuga intesa come gesto vitale, come affermazione della propria vitalità; quindi non è la fuga del pavido, ma è la fuga intesa come un rifiuto, rifiuto a un sistema.
Tu sei la dimostrazione di come si possa arrivare primi in classifica senza rinunciare alla propria identità, al dialetto, al proprio gruppo di lavoro, senza farsi imporre produzioni e altri vincoli…quanto è importante rimanere autentici per riuscire a diventare universali?
Per me i miei dischi sono il racconto della mia storia, che parte dal “Bar della rabbia”, in cui stavo lì con l’ubriacone, il pagliaccio, la prostituta, il barbone. Sono stato costretto ad uscire da questo Bar della rabbia grazie alla gente che cominciò a seguirmi. Stiamo vivendo una storia insieme, con i musicisti, con Tony che sta qui stasera, e si va avanti. Nel secondo album parlavo della città, di quello che vivevo e adesso siamo arrivati qui, da questo monte stiamo guardando quello che c’è dall’altra parte. Quindi l’autenticità sta nel sapere da dove vieni, chi sei. Quello che posso dire è che io, che molte volte nella mia vita ho pensato di non valere niente, adesso mi trovo a incontrare delle persone che mi ringraziano per quello che ho scritto e questo è quello che mi fa rimanere coi piedi per terra, è la responsabilità del rapporto con il pubblico, è dividere i meriti, perché io ho i miei maestri nella vita, sia nella mia vita che nella mia musica, e quindi per me è importante riconoscere il proprio merito a tutti quelli che hanno messo la loro arte nei miei dischi.
La prima volta che sono andato a casa di Tony per il “Bar della rabbia” lui si è messo le mani nei capelli, mi chiamò “cavallo pazzo” all’epoca, perché ero veramente anarchico, pure nel modo di strutturare le canzoni. E’ stato un lavoro che non ho fatto da solo, è stato un lavoro d’equipe. Ci vogliono grandi gruppi di grandi persone per raggiungere sempre dei risultati migliori. Mi sono legato a persone che vivono la musica come un impegno, come una disciplina, e l’affrontano con ricerca e rigore. Non abbiamo mai provato ad impacchettare quelle che a Roma si chiamano sole.
In primavera partirà il tuo tour che già vede dei grandi sold out. Cosa dobbiamo aspettarci da questo nuovo spettacolo?
Una festa! L’idea è quella di raccontare le storie, i concetti, e in più di prendersi la responsabilità della gioia.
Intervista a cura di Egle Taccia