Un disco scritto, prodotto e arrangiato negli intervalli tra i tour e altri svariati suoi progetti. Carlo Barbagallo è tornato con un nuovo lavoro intitolato 9. Abbiamo intervistato l’artista siciliano per scoprire cosa si cela dietro a questo numero e non solo…
Raccontaci i molteplici significati di “9”.
Il numero che dà il titolo al disco è presente a molteplici livelli di lettura in esso: nella storia che narrano i testi il ‘9’ è considerato come misura del tempo che scorre e ciclicamente si ripete; la suggestione data dalla sua forma grafica a ‘strano anello’, come direbbe Hofstadter, ovvero in questo caso un’ iterazione continua che presenta però un punto di fuga, è calcata nelle strutture dei brani e del disco intero, nel numero delle canzoni, nel suo concept grafico.
Un sound in cui si avvertono diverse influenze, complici anche i diversi background dei musicisti coinvolti, ma che, al tempo stesso, rappresenta un qualcosa di nuovo, di non sentito…
In maniera del tutto spontanea credo di aver messo nel disco buona parte di tutto quello che mi piace, i miei ascolti e le mie esperienze sonore degli ultimi anni. Tutti gli amici che hanno preso parte alle registrazioni sono stati compagni di viaggio che hanno aiutato ad arricchire la tavolozza di colori con la quale in fase di montaggio ho potuto dipingere un mondo variegato ma credo strettamente personale.
Il disco vede collaborare, per la prima volta, più etichette indipendenti. Com’è nato questo incontro?
Il disco è uscito il 5 maggio 2017 contemporaneamente all’estero, grazie agli sforzi congiunti di Noja Recordings (ovvero io stesso), Wild Love Records, Stereodischi e i tanti fan che hanno acquistato il disco in pre-order, e in Italia grazie all’unione di Trovarobato e Malintenti Dischi. Insomma un folta squadra che si è innamorata di ‘9’ e crede negli sviluppi futuri del progetto a partire da queste canzoni.
“9” è stato registrato in gran parte nel tuo studio mobile in giro per l’Europa. E’ un’esperienza che rifaresti?
Dopo la registrazione del disco precedente, “Blue Record”, quasi completamente fatto in uno studio (appunto il Blue Record Studio a cui il disco è dedicato) vissuto per più di un anno quasi 24 ore su 24 come una casa, mi sono trovato in una fase di stallo dovuta al fatto di dover ri-immaginare il mio modo di lavorare in mancanza di un posto del genere a disposizione full time. Prima di “Blue Record” ho sempre prodotto i miei lavori solisti in casa, quindi nella nuova condizione pian piano si è venuto a delineare un approccio che in qualche modo declina insieme i paradigmi dell’home studio e quello dello studio ‘classico’ in una dimensione mobile, grazie anche alle numerose produzioni artistiche che ho curato negli ultimi anni spostandomi continuamente. E’ una dimensione che adoro e che consiglio, che a mio avviso permette di appropriarsi dei luoghi e impregnare i dischi di essi, anche per breve tempo.
Qual è stato il primo pensiero ascoltando questo disco finito?
Non ricordo sinceramente. Anche perché prima che lo fosse, l’ho ascoltato in miliardi di versioni diverse, magari tornando a steps precedenti o immaginandone di nuovi fino all’ultimo secondo. Sicuramente quando lo riascolto dall’inizio alla fine adesso, mi sento totalmente soddisfatto del percorso personale e professionale che documenta nella sua forma finita.
Musicista e sound-engineer, hai cominciato a produrre la tua musica sin da bambino. Chi ti ha trasmesso questa passione?
La mia famiglia. Da generazioni siamo tutti grandi appassionati di musica e non solo: musicisti, autori, orchestrali, danzatori, e tutti di diversissima estrazione. Ad ogni modo, non so come mi sia appassionato alla registrazione, iniziando da piccolissimo mettendo i “radioni” uno davanti all’altro per simulare i registratori multitraccia oppure fissando su cassetta improbabili improvvisazioni con strumenti di cui non conoscevo minimamente il funzionamento. Credo una frequentazione precoce con il vinile, e quindi non solo il suo ascolto ma anche il suo culto, e appunto le possibilità suggerite dai mezzi basati sulla musicassetta. So per certo però che la svolta è arrivata quando contemporaneamente mi prestarono il libro di Mark Lewison, ‘8 anni ad Abbey Road’ e un multitraccia a quattro piste.
Intervista a cura di Cinzia Canali