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No New – I FITZCATALDO “non stanno a guardare”e ci regalano un nuovo ed emozionante Ep

I FITZCATALDO hanno da poco concluso il tour per la promozione dell’omonimo ep, anticipato dal melanconico singolo “I won’t be watching“. Il nuovo lavoro del trio milanese è maturo, un perfetto mix di armonie, nuovi registri espressivi e sperimentazioni musicali.

“I won’t be watching” è il primo singolo estratto dal nuovo e omonimo Ep “Fitzcataldo” e rappresenta il punto di partenza del vostro rinnovato percorso artistico. Da cosa o da dove nascono i nuovi registri sonori presenti in questo singolo? E qual è il messaggio contenuto nel vostro “io non starò a guardare”?

“I won’t be watching” è un brano che racchiude aspetti del primo disco rivisitati in chiave più matura. Dal punto di vista dell’arrangiamento, la chitarra principale viene accompagnata da linee di sottofondo molto riverberate e ariose e, nella prima parte, da un basso che rimane su note acute per poi entrare e aprire il ritornello. Sul finire invece la canzone si conclude con una coda che potrebbe ripetersi all’infinito (il che è un ottimo pretesto per variazioni e improvvisazioni nei nostri live).

Abbiamo voluto giocare sul fatto di mantenere un tempo sospeso, disorientato fino all’ingresso di tutti gli strumenti e che, nell’insieme, danno vita a un beat in quattro quarti su una melodia che nasce in terzinato.  Lo abbiamo scelto come singolo perché è il brano meglio riuscito del nuovo lavoro in studio. All’interno è facile trovare i passaggi armonici con i quali siamo abituati a giocare ormai da qualche anno.

Definite la vostra musica “Handmade pop” un genere-non-genere che contiene arrangiamenti minuziosi, melodie delicate ed evocative con richiami al panorama indipendente contemporaneo. Quali artisti per voi sono determinanti nella vostra quotidianità? E tra di voi a quanti e quali compromessi siete scesi per raggiungere questo risultato?

Sì, ci definiamo tra le tante cose anche “handmade pop”, secondo la definizione coniata da un nostro caro amico batterista, nel senso che ha voluto darne lui: un genere che è di facile ascolto ma che sotto sotto è come un orologio fatto a mano, composto da armonie non sempre banali, amalgamate con passaggi morbidi e limati che nascondono le sfaccettature più spigolose. Ascoltiamo generi e artisti molto diversi tra loro e la tendenza è quella di farsi travolgere da chi fa dell’innovazione in campo creativo (dal punto di vista dei suoni e degli arrangiamenti).

Nel nostro lavoro cerchiamo di portare sempre nuove influenze e di lasciare che tutto si contamini. L’’idea appunto è quella di spingerci sempre verso nuove sonorità ma rimanendo un trio e, volendo continuare a fare musica suonata (senza synth o macchinari vari), sappiamo che abbiamo delle limitazioni e che dobbiamo arrivare a dei compromessi.

Perché avete scelto di cantare in inglese? Pensate sia svantaggioso per gli artisti italiani usare la propria madrelingua per promuoversi all’estero?

Ovviamente abbiamo nelle orecchie il cantautorato italiano cosa da cui, pochi in Italia, pensiamo possano prescindere.

L’uso dell’inglese è solo una scelta dovuta ai nostri riferimenti musicali e quindi alle ritmiche spontanee del cantato (creiamo prima la melodia e poi il testo di conseguenza). Le parole stesse sono ispirate dalla musica, prendono vita per immagini. Le sensazioni sono in questo senso il vero tema dei nostri testi. Nel primo disco alcuni testi raccontavano immagini o situazioni strane mentre altri erano di ispirazione amorosa o erotica (spesso molto ironici) e altri ancora evocavano immagini oniriche. Nel nuovo EP invece siamo ripartiti da questi ultimi e sono emersi dei versi molto più sentimentali. Il senso è comunque che le parole lascino spazio all’immaginazione, al sogno e all’evasione dettate dalla musica. Per soddisfare la curiosità: i testi sono stati scritti sfogliando riviste indipendenti di moda in inglese: attingendo dalle frasi degli articoli, dalle parole o descrivendo le fotografie su cui l’occhio cadeva interessato e sono poi stati scritti dei versi e, infine, composti dei testi.

Per quanto riguarda l’uso della lingua italiana: nel 2016 scrivere brani in italiano, purtroppo, significa ancora faticare a “scavalcare” le Alpi (soprattutto per le band dello scenario undeground).

Secondo voi cosa serve oggi alla musica indipendente italiana? Cosa serve veramente per svecchiarla e farla uscire finalmente allo scoperto?

L’impressione è che l’ambiente indie, così come l’industria musicale, sia in difficoltà ma anche in veloce evoluzione. La cosa positiva è che tutto è in discussione. Quindi. in teoria, ci sono tantissime possibilità per pubblicare prodotti interessanti. É bello poi che l’attitudine indipendente resista, magari cambiando forma e generi.
Vediamo che l’ambiente dell’indie tradizionalmente inteso, quello a cui apparteniamo della “musica suonata”, sembra un po’ fossilizzato su distinzioni, generi e cliché del decennio scorso. Noi stessi ne siamo purtroppo influenzati. Ma siamo ottimisti e crediamo che presto si svecchierà tutto; c’è tanta musica nuova e bellissima in giro per la penisola.

Il 19/11 è partito il Tourdefitz e il calendario è sempre in aggiornamento. Quanto vi piace la dimensione live? Prevedete di esibirvi anche all’estero? E una curiosità: quando non siete in tour che cosa fa ognuno di voi?

Il fatto di poter fare un tour è l’occasione per farsi sentire anche da chi non è di casa. Quando porti in giro un progetto in parte “vecchio” di qualche anno (i nostri live sono formati per la metà da brani scritti ormai nel 2013), alla lunga, senti l’esigenza di farlo davanti a un pubblico nuovo. Questa cosa sicuramente dà molta energia e ti fa rivivere le emozioni che avevi le prime volte che suonavi quegli stessi brani live, con in più tutta la maturità di chi quei brani li conosce a menadito e sui quali ti viene normale improvvisare con sicurezza. Le date in location nuove sono sempre un’incognita e i ricordi si formano a partire dalle connessioni che crei con le persone presenti, dall’inizio alla fine della serata. Suonare all’estero ovviamente sarebbe il massimo per noi che siamo stati, più volte, definiti “esterofili”. Per ora ci è sembrato giusto partire con un tour italiano.

Nei momenti in cui non si suona assieme ci dedichiamo al lavoro: giù dal palco siamo un designer, uno sviluppatore e un tecnico manutentore.

Qual è il luogo in cui vi sentite più a vostro agio quando scrivete e componete i brani? Lavorate sempre in sinergia senza mai dividervi oppure ognuno si ritaglia il suo spazio e poi porta le proprie idee all’interno del gruppo?

I nostri brani nascono o da spunti in sala prove (quindi da un momento di sinergia totale) o da idee che ognuno si registra e si suona a casa. Tempo fa avevamo a disposizione una saletta in una scuola di musica: appena potevamo entravamo a suonare anche fino a tarda notte ora invece strutturiamo le canzoni in casa su una DAW, tentando di limare sin da subito tutti i passaggi per perdere tempo possibile in sala prove.

Il gruppo nasce 3 anni fa da quali esigenze? Perché un trio e da quali percorsi musicali ognuno di voi proviene?

Il gruppo nasce senza alcuna pretesa 3 anni fa e dà il via da subito a un percorso di ricerca musicale e armonica che è poi la vera anima del progetto. Su questo siamo abbastanza d’accordo: o troviamo nuovi stimoli e manteniamo alto il tasso di interesse e di ricerca “musicale” oppure è meglio accantonare il tutto e amici come prima.

Il trio è la forma più classica che ci possa essere: sezione ritmica + armonia e cantato, ed è quella che in questo momento ci rappresenta di più. Non possiamo sapere se in futuro ci saranno sorprese da questo punto di vista, per ora ci piace affrontare la nostra esperienza sul palco in tre e aggiungendo qualche linea di chitarra (per i brani tratti dall’ultimo EP “Fitzcataldo”).

Intervista a cura di Silvia Rivetti per NonsenseMag

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