Gli Stolen Apple hanno recentemente pubblicato “Trenches”. Nonostante si esibiscano ormai da anni sui palchi, il loro album d’esordio è uscito il 23 settembre. Si distinguono per la loro originalità sia nei suoni sia nei testi delle loro canzoni. “Trenches” è un caleidoscopio di emozioni e sensazioni diverse, che mutano e si evolvono da brano a brano. I dodici pezzi ci trasportano in questo modo, attraverso sonorità talvolta alternative e talvolta indie rock.
Il nome della band è ispirato dalla storia di Ernest Lossa, cosa vi ha colpito di essa?
Ernst è stato uno dei primi ragazzini di etnia jenisch ad essere ucciso nel 1944 dai nazisti in nome della loro campagna eugenetica, mirata ad eliminare gli individui più fragili. Era un bambino che oggi chiamerebbero iper-cinetico. Fu rinchiuso nella clinica tedesca di Irsee, dove di nascosto rubava le mele della dispensa del sanatorio, per dividerle con gli altri “pazienti”. I nazisti si sono accorti che tutto ciò ‘creava speranza’ e lo hanno eliminato.
Abbiamo conosciuto la vicenda di questo bambino grazie allo spettacolo di Marco Paolini “Ausmerzen”. È simbolo di un’infanzia negata e più in generale è segno di violenza contro i più deboli e i diversi. La sua fine violenta e senza spiegazioni, è stata per noi motivo di angoscia ma anche di speranza: l’imprevedibilità del gesto di un debole che in realtà contiene una forza dirompente. Forse in questo ci identifichiamo anche noi, così abbiamo scelto di chiamarci come il frutto della sua lotta alla sopravvivenza, una battaglia che tutti i giorni, ci riguarda da vicino.
Suonate assieme da molto tempo, come mai la scelta di pubblicare un album proprio ora?
Abbiamo aspettato un po’ perchè volevamo capire qual era la strada migliore da percorrere, relativamente ai brani composti e alle nostre attitudini. Dopo l’uscita di Giovanni Chessa dal gruppo, con l’innesto di Alessandro Pagani alla batteria, la decisione di uscire con il disco è venuta in modo spontaneo, senza pensare troppo alla perfezione o agli stili da seguire, proprio per mantenere i brani nella maniera più originale possibile. Pensiamo che la spontaneità che ci contraddistingue è una delle propensioni a cui siamo più legati, che ci porta nel tempo a scoprire di volta in volta nuovi orizzonti musicali.
Il nome del disco, “Trenches” rimanda alle trincee. E’ in qualche modo collegato con l’origine del nome del gruppo?
Senza dubbio. Nonostante gli insegnamenti e le esperienze vissute, c’è ancora troppa distanza tra il sogno di una società unita, solidale a difesa delle fragilità umane e le varie realtà sparse nel mondo. Le aspettative comuni di un futuro libero da tirannie, calunnie o malvagità, appartenente ad una collettività che si tiene per mano in armonia, sono per buona parte ancora dentro le trincee (mentali e materiali) che caratterizzano il nostro presente.
L’intero disco è pieno di influenze differenti. Questa scelta è per evitare la monotonia o per soddisfare i gusti di tutti i membri?
Entrambe le cose. Ognuno di noi viene da conoscenze musicali diverse, anche se con tendenze piuttosto comuni, che nel gruppo mettiamo a disposizione l’uno dell’altro. In più la musica, essendo un universo senza limiti, consente di sperimentare senza confini. In questo, la diversità delle strutture dei nostri brani ci rappresenta in pieno.
Le tracce sono costituite anche da “ricordi e avventure”: sono esperienze personali di ognuno o collettive?
I brani trattano temi che ci riguardano da vicino, non come singoli componenti artistici, ma come persone che fanno parte di una pluralità comune. Si parla di individui che nella fragilità di un momento riescono comunque – nella loro personale resilienza alle avversità – a dare un senso alla loro vita. Diamo testimonianze che parlano d’amore, amicizia e solidarietà. Valori che nel nostro tempo, senza eccessi di retorica, si accendono con fatica. Oltre a questo, ognuno di noi in qualche brano parla di un personale momento vissuto, che avrebbe voluto o vorrebbe provare.
Domanda Nonsense: Descrivetevi come un critico d’arte descriverebbe un quadro.
Sicuramente non una natura morta. Neanche un quadro troppo metafisico. Ci avviciniamo a quello che la copertina di “Trenches” rappresenta: un paesaggio un po’ desolato e silenzioso, freddo ma non senza vita. Forse un po’ naif ed anacronistico, ma che provoca curiosità ed uno strano interesse: chissà chi apparirà, e cosa succederà dopo… Magari una navetta extraterrestre che invece di alieni pronti a conquistare un nuovo mondo, conduce la parte più buona ed interessante di noi stessi.
Intervista a cura di Federica Fallacara