Con Dedicated To Bobby Jameson il geniale e multiforme folletto Ariel Marcus Rosenberg, meglio noto come Ariel Pink, taglia il significativo traguardo della undicesima fatica discografica in neanche vent’anni di carriera, riportando il suo retromaniacale collage di psych pop ipnagogico in territori più oscuri e lo-fi rispetto al precedente Pom Pom (2014), validissimo ma stilisticamente forse fin troppo sofisticato.
La rinuncia ad una estetica più levigata coincide con il cambiamento di label: dopo 8 anni e 3 album con la sempre benemerita 4AD, Rosenberg approda alla corte della Mexican Summer di Brooklyn, più piccola rispetto alla leggendaria etichetta londinese, ma già consolidata tra le principali realtà del panorama indipendente. Questo riposizionamento discografico sottolinea, a suo modo, il crescente distacco e disincanto del Nostro nei confronti dell’industria musicale: un sentimento che diventa poetica unificatrice di tutto il nuovo lavoro, non a caso dedicato ed ispirato alla figura di Bobby Jameson, sfortunato songwriter losangelino attivo negli anni ’60 e protagonista, suo malgrado, di un tragico ottovolante artistico ed umano.
Scoperto da Andrew Loog Oldham negli anni ’60, Jameson conquista discreta notorietà con l’album di debutto Songs Of Protest & Anti-Protest (pubblicato nel 1965 sotto lo pseudonimo Chris Lucey): un disco spectoriano nell’approccio sonoro e dall’impronta crudemente personale, grazie al quale si guadagna il ruolo di supporter per The Beach Boys e Chubby Checker, così come collaborazioni illustri con Keith Richards, Robert Plant e Frank Zappa. Tuttavia, in attesa di un riscontro economico mai concretizzatosi, Bobby comincia presto ad avvitarsi in una perversa spirale di frustrazioni personali, dipendenze e tentativi di suicidio, fino all’inevitabile sparizione dalle scene. Dimenticato da tutti, o quasi, e addirittura creduto morto dai più, riappare un trentennio dopo attraverso un blog e un videodiario su YouTube, deciso a lottare per riappropriarsi dei diritti editoriali sulle sue canzoni, nel frattempo ripubblicate senza autorizzazione. Nel 2015, prima di poter raccogliere i frutti di questa battaglia, e proprio quando sembrava aver ormai movimentato un seguito di culto attorno a sè, viene però stroncato da un aneurisma, all’età di 70 anni.
Una storia che sussume in maniera paradigmatica il campionario di accelerazioni gravitazionali, positive e negative, che il “music biz” è in grado di imprimere a chi ha la ventura di sfidare i suoi cinici, spietati, financo beffardi meccanismi. Ce ne sarebbe abbastanza per sceneggiare un film di Sean Penn.
Non sfugge, allora, come il senso ultimo di Dedicated To Bobby Jameson, sia duplice. Da un lato l’omaggio ad un artista che Rosenberg sente profondamente affine, sia in chiave musicale, con la psichedelia 60’s come terreno d’incontro, sia dal punto di vista prettamente umano ed ideale, con riferimento allo status da outsider e al devastante senso di solitudine che ne rappresenta il corollario (anche se Ariel Pink non ha mai sperimentato la disattenzione riservata al suo eroe da pubblico e critica). Da un secondo punto di vista, questo album esprime anche una dichiarazione di intenti, una presa di posizione netta contro un sistema musicale (americano e losangelino in particolare), in grado di trasformarti, nel giro di un nonnulla, da protagonista in vittima sacrificale.
Tutto l’album si muove, quindi, sul parallelismo tra Ariel e Bobby, veicolato con il consueto e policromo armamentario espressivo cui il Nostro ci ha abituati. Il raffinatissimo e nostalgico citazionismo di Rosenberg si dilata fino a coprire praticamente ogni input musicale compreso tra i ’60 e i ’90: fanno capolino, uno dopo l’altro, i Buggles di Video Killed The Radio Star (nell’esplosione pop di Time To Live), Psychedelic Furs e Cure (nei romantici synth di Feels Like Heaven), il Falco di Der Kommissar (nell’inno alle deiezioni di Babbo Natale Santa’s In The Closet), Beach Boys e New Pornographers (nella irresistibile gemma Bubblegum Dreams), il duo Hall & Oates (nell’elettronica 80’s di I Wanna Be Young e Death Patrol). Non può mancare, poi, la psichedelia sgangherata, sbilenca e sognante, che permea la title-track e che ritroviamo anche in Time to Meet Your God, Dreamdate Narcissist e Do Yourself A Favor.
Mai come in questa occasione, però, la stravaganza, l’eccentricità e quel caratteristico effetto “macchina del tempo vintage-pop”, così tipicamente Ariel Pink, rimangono immuni dal rischio di cadere nell’esercizio di stile fine a se stesso. Il nuovo Mr. Rosenberg, più sentimentale, riflessivo e coinvolto nella narrazione della disfatta artistica e personale di Bobby Jameson, trova qui la migliore messa a fuoco del proprio canone estetico, perfezionandone la formula senza lasciare per strada quell’impertinenza dadaista che, da sempre, ne costituisce la cifra distintiva.
L’epopea degli outsider ha il suo lieto fine: un ciuffo rosa shocking e il sorriso, fluttuante tra le nuvole, di Bobby Jameson.
Mario Lo Faro