“Waiting on a song” è uscito il due giugno di quest’anno ed è il secondo album da solista di Dan Auerbach, il cantante, polistrumentista e pietra angolare dei Black Keys. In copertina Auerbach giace, chitarra alla mano, su un letto di foglie secche, guardando distrattamente fuori dall’obbiettivo. In realtà quello sguardo da finto tonto è tutto un inganno, perché Auerbach la sa lunga ed il suo lavoro è veramente impressionante.
C’è da dire, però, che l’album presenta diversi livelli di lettura che rendono veramente difficile dare un parere univoco.
Il primo ascolto dà sempre l’impressione di trovarsi davanti ad un’opera eccezionale: tempi che catturano l’ascoltatore (spesso e volentieri in quattro quarti) e pennate di chitarra sapientemente confezionate su ritmi dal sapore di Summertime Blues.
Il sound del disco è profondamente americano, ed in questo sembra risentire dell’origine dei grandi autori che hanno partecipato alla realizzazione dell’album.
I nomi che hanno messo la firma sull’album, infatti, sono sicuramente impressionanti. Tutti mostri sacri: Duane Eddie, Bobby Wood, Gene Chrisman, e perfino Mark Knopfler venuto direttamente da oltreoceano, ad accompagnare con la sua chitarra Auerbach nel singolo Shine on me, e nel quale forse il fingerstyle del sultano del swing avrebbe potuto essere sfruttato in maniera più incisiva.
Anche la localizzazione “geografica” ha avuto un peso immenso nel creare le sonorità dell’album. Auerbach ha registrato tutto in uno studio di sua proprietà a Nashville, la Music City, capitale della musica country e luogo di nascita dell’omonimo stile musicale. Da qui “l’americanità” della tradizione di cui risente l’intero album.
Molti pezzi sono caratterizzati da Riff accattivanti che ricordano il miglior rockabilly degli anni ’50 (vedi Livin’ in sin per tutti), ed altri ancora sanno di Nashville style corretto dall’elettricità delle chitarre. Il caso tipico è quello della title track, Waiting on a Song che è una riflessione scherzosa che l’autore fa con se stesso sul modo in cui le canzoni sono concepite, ed è un pezzo fresco che non stanca mai. Anzi, una volta insinuatosi nelle orecchie di chi la ascolta, diventa impossibile da espellere.
Insomma, l’album è prodotto in laboratorio (o meglio in studio) per l’estate. Proprio per questo motivo c’è però un effetto collaterale, e cioè che l’autore paghi il prezzo di questa troppa voglia d’estate. Aggiungiamo che forse di questa voglia di entrare nella hit parade, di questi ritmi leggeri e dagli scampanellii (che sono presenti in due dei tre singoli estratti dall’album), risente anche la sapidità dell’album.
Sebbene gli ingredienti per ottenere un grande successo estivo ci siano tutti, cessato l’effetto sorpresa del primo impatto, all’ascoltatore sembra rimanere in testa solo un ronzio dei pezzi ascoltati, nella più grande tradizione dei tormentoni estivi.
La leggerezza dei temi e la freschezza del sound sembrano suggerire che “Waiting on a Song” sia un prodotto da smerciare più che un’opera dell’autore.
In altre parole, sembra che l’album sia realizzato secondo il gusto di chi lo dovrà ascoltare più che secondo quello di chi lo ha realizzato.
E’ per questa ragione che, a voler fare l’indovino, è altamente probabile che in autunno, con la fine della bella stagione, “Waiting on a Song” seccherà proprio come le foglie d’acero della copertina dell’album.
Che quel letto di foglie sia un presagio?