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“4180 – A Tale of our lives”: la danza distopica delle nostre vite [Report]

Orwell aveva una visione precisa della traiettoria che la tecnologia applicata alla politica avrebbe impresso alla evoluzione della società moderna. Lo scrittore inglese ha descritto meglio e prima di chiunque altro la metamorfosi maligna di un Potere che si avvale di un sistematico svuotamento delle menti e del livellamento in un pensiero unico tale da annullare qualsiasi tipo di massa critica. Proprio dalle visioni distopiche del romanzo orwelliano nasce l’intuizione della coreografa Naike Negretti di allestire “4180 – A Tale of our lives”, progetto di danza contemporanea messa in scena dalla compagnia Breaking Sound Dance Experience, venerdì 13 dicembre scorso sul palco di Zō Centro Culture Contemporanee di Catania.

4180 – A Tale of our lives”, la cui regia è curata dalla stessa Negretti, è un contenitore multimediale in cui confluisce l’idea di un’arte totale che mutua il proprio linguaggio coreutico dalla musica, creando un sinuoso corpo unico. Su un fondale fatto di suoni e proiezioni si consuma lo scontro tutto interiore tra l’obnubilamento delle coscienze e una forza vitale che non rinuncia ai propri desideri, con una costante elettricità che si sprigiona. Lo spettacolo conduce ad immergersi in un’atmosfera cupa ed opprimente in cui vige la dittatura della massificazione del pensiero, così come visivamente risalta dalle divise che vengono indossate da tutto il corpo di ballo la cui livrea ricorda non a caso il nazionalsocialismo.

La coreografia si fonde con la scena ed i danzatori con i colori proiettati sui loro corpi, quasi come una installazione visiva di Andy Warhol, in uno scenario infinito che travalica i confini della scena in cui tutto è collocato. La musica è, però, l’elemento determinante da cui scaturisce il significato di ogni singolo gesto che assume un peso specifico nell’economia della rappresentazione. E’ proprio la musica il motore che spinge i muscoli dando senso al copione e alla scansione geometrica delle coreografie che si avvicendano sul palco. La tematica musicale trae le proprie suggestioni da Depeche Mode e Duran Duran, attestandosi su un’estetica eigthies per sviluppare il concetto di una incomunicabilità indotta da una nascente tecnologia di cui non si conoscevano le potenzialità in termini di controllo sulla libertà sociale.

L’elemento di particolarità del progetto è dato dalla colonna sonora originale scritta da Filippo Basile, suonata dal vivo dallo stesso come fosse la naturale controparte della coreografia, il sostrato vitale su cui si radica la danza stessa. Basile, chitarrista dei None of Us e musicista di grande sensibilità, ha riversato tutta la propria visione in una sequenza di brani definiti da uno spessore materico e immaginifico, oltreché saturati di una energia sempre controllata e toccante nella sua forza ancestrale. Nella musica di Basile c’è qualche elemento che riporta ad una idea primordiale del suono come chiave di lettura della propria esistenza. In ogni brano c’è la sottotraccia di un urlo assordante che non è una richiesta di aiuto, bensì l’affermazione di una identità rivendicata al netto di ogni sovrastruttura. Tutto è suonato con la chitarra elettrica collegata all’amplificatore e pochissimi effetti, sfruttando unicamente la dinamica naturale del riverbero sprigionatosi nella sala. Il risultato è a metà tra le rifrazioni alla David Gilmour, il chitarrismo alla John Frusciante che gioca con Omar Rodríguez-López dei Mars Volta alla sperimentazione ed i riflessi alabastrini del delay di Vini Reilly. L’assolo del performer Giuseppe Marino, alias Alosha, sulla ritmica incalzante di Basile è uno dei momenti topici della serata, con sullo sfondo la proiezione di immagini di autocombustione.

Riteniamo che “4180 – A Tale of our lives” sia stato pensato come una sorta di work in progress, considerato che tutti gli elementi che lo compongono hanno una potenzialità tale da essere ricombinati e sviluppati ulteriormente. Ottima performance.

Giuseppe Rapisarda

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Avvocato, appassionato di musica. Da quando il padre gli regalò la cassetta di "Outlandos d'Amour" dei Police non ha più smesso di comprare dischi. Sa essere concreto anche se, di tanto in tanto, si rifugia in un mondo ideale sospeso tra le canzoni di Neil Young e le divagazioni oniriche dei romanzi di Murakami.

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