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Algiers, la rabbia veste di velluto nero [Recensione]

Giunge il momento del terzo album per gli Algiers, che imprimono al loro sofisticato ed arrabbiato punk/hardcore degli esordi una notevole eppur tuttavia coerente svolta stilistica. Seppure le fondamenta del sound della band continuino a poggiare saldamente sulla graffiante voce di Franklin James Fisher, le chitarre stridenti di Lee Tesche e la martellante e sofisticata sessione rimica di Ryan Mahan al basso e alla batteria dell’ex Bloc Party Matt Tong, in “There is No Year” si fondono con una cupa vena elettronica e la black music di protesta.

Il risultato di questo mélange stilistico si traduce in sonorità solo apparentemente più tranquille e rarefatte, capaci in realtà di veicolare in maniera più impattante il peso dei testi della band, che si schiera senza remore lanciando messaggi di impegno politico e sociale contro razzismo, capitalismo, fascismo e ogni abuso da parte del potere costituito. Provenienti da quel Sud degli Stati Uniti definito da essi stessi “la parte cattiva dell’America”, gli Algiers con “There is No Year” realizzano un autentico pamphlet di protesta musicale: dall’artwork della copertina, che ci ricorda un opuscolo di protesta clandestino, all’intensità dell’interpretazione, la band di Altanta trova un perfetto equilibrio fra rabbia e stile, impegno ed entertainment.

La nuova veste sonora del quartetto si dimostra efficace e ricca d’ispirazione: l’impatto sonoro punk si mantiene vivo e coerente in brani come la title track, si fonde con divagazioni fra jazz e soul nella scoppiettante “Chaka” e riesplode definitivamente verso la fine dell’album, prima nel post rock industriale di un brano senza speranza come “Nothing Bloomed”, poi nell’esplosione hardcore di “Void”, definitivo e conclusivo atto di ribellione del disco. Nel mezzo, infinite variazioni in chiave di nero che rappresentano la notte oscura che avvolge i nostri tempi: “Dispossession” ripropone in chiave contemporanea il riot di Sly Stone, nella cupezza affatto rassegnata di “Hour of the Furnaces” e “Repeating” troviamo tracce dello stile e del redivivo impegno dei Depeche Mode di “Spirit” (ispirazione forse tratta durante le date in cui gli Algiers hanno aperto l’ultimo tour della band britannica?), e ancora atmosfere ispirate dalla collaborazione con i Sunn O))) ed un melting pot che unisce soul, funk e jazz in un sorprendente caleidoscopio sonoro che solamente Prince e, recentemente, Kendrick Lamar hanno saputo realizzare.

Con “There is No Year” ci troviamo di fronte ad un passo in avanti significativo per gli Algiers, capaci di essere innovativi e coerenti allo stesso tempo: la rabbia e la voglia di aprire gli occhi al mondo non è passata, e se le sonorità si sono ammorbidite lo hanno fatto in maniera solo apparente, poiché alla furia cieca degli esordi hanno sostituito l’eleganza di atmosfere nere come la pece che non ci ipotizzano un futuro distopico, ma un presente angosciante, che non lascia neppure intravedere all’ascoltatore la possibilità di un futuro. Missione compiuta per gli Algiers, che con “There is No Year” ci propongono un’opera elegante come il velluto nero, eppur capace allo stesso tempo di colpirci duramente come lo schiaffo tirato con un guanto delle black panther.

 

Tracklist:

  1. There Is No Year
  2. Dispossession
  3. Hour Of The Furnaces
  4. Losing Is Ours
  5. Unoccupied
  6. Chaka
  7. Wait For The Sound
  8. Repeating Night
  9. We Can’t Be Found
  10. Nothing Bloomed
  11. Void
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