“Bellissima Noia” è l’ultimo album di Nicolò Carnesi, pubblicato per Malintenti Dischi, in cui l’artista palermitano ci racconta di come, starsene un po’ per conto proprio, possa avere innumerevoli risvolti positivi. Un inno a perdersi con i propri pensieri, con le proprie passioni, nel quale però non mancano vari approfondimenti sociali, accompagnati da un sound che va a ripescare sonorità del passato. Abbiamo incontrato l’artista per conoscere meglio questa noia bellissima.
Intervista a cura di Egle Taccia
Con questo album vuoi dirci che la noia può essere bellissima?
Assolutamente sì, dipende dal modo in cui la vivi, può sicuramente arricchirti, se però sei tu che la vivi nel modo giusto, perché la noia può sempre sfociare in qualcos’altro, può sfociare in alienazione, in voglia di non far nulla, quindi fondamentalmente devi essere tu a sfruttarla nel modo giusto. Io ho cercato di farlo appunto scrivendo canzoni, ma allo stesso tempo guardando film, leggendo libri. Ho cercato di arricchire un po’ me stesso dopo gli anni passati a suonare in giro, o semplicemente a stare in giro. Ho abitato a Milano…tornare in Sicilia mi è servito a questo, ad annoiarmi per far qualcosa; quindi la noia può essere anche molto bella.
Può essere considerato un inno alla solitudine?
In genere associamo molto spesso la noia alla solitudine, ma non sempre è così. Per me la noia, quella brutta, è quella in cui ti annoi in mezzo a tante persone. Per dire, io mi annoio a morte in discoteca dove tutti ballano. Non essendo un ballerino non mi piace la musica troppo alta, non mi piace molto spesso la musica che fanno in quei contesti, e quella è una noia bruttissima perché non riesci a sfruttarla, sei lì, devi stare lì o te ne vai (per fortuna c’è ancora una scelta, puoi sempre andartene), ma se sei andato lì con qualcuno devi aspettare, ci sono tante variabili. Quella è l’accezione di noia brutta, perché tra l’altro è amplificata dal fatto che tutti intorno a te si stanno divertendo.
La noia di cui parlo io è quella solitaria, nel tuo habitat. Ognuno di noi si costruisce un habitat ad hoc per se stesso, che può essere ad esempio fatto di libri, film, nel mio caso di dischi e strumenti musicali. Ognuno può trovare il proprio e quello è l’habitat giusto per la bellissima noia.
Per essere perfetti bisogna essere modesti?
Quella è un po’ una presa in giro in generale nei confronti dell’intellettuale medio. Dico: “Per essere perfetto devi essere modesto, spacciarti per normale, di cultura ma non troppo, impegnato nel sociale, confidenziale ma con distacco.” Quindi non essere mai estremo, né da una parte né dall’altra. Io lo vedo in moltissimi, non solo intellettuali, ma cantanti, scrittori, attori, soprattutto in quelli che ho avuto modo di conoscere, non faccio nomi in particolare, ma è una cosa che vedo veramente un po’ in tutti. Per un periodo, analizzandomi, l’ho vista anche in me ed ho cercato di allontanarmi da questo atteggiamento, in cui appunto tutto deve essere bilanciato. Devi essere modesto ma spacciarti per normale, insomma, sta a significare pure farlo con un po’ di puzza sotto il naso. È un atteggiamento che poi in realtà di fatto non porta a nulla, perché se non prendi di petto qualcosa, a volte, non ne ricavi nulla. Però è quello che funziona, è quello che il pubblico vuole. Io sono sempre un po’ preoccupato quando qualcosa ha troppo successo, quindi nel mio caso sono tranquillo.
Ho notato che i suoni hanno viaggiato un po’ nel passato. Cosa ti ha spinto verso questa strada?
Innanzitutto le persone con cui ho lavorato, che sono Donato Di Trapani a tutti i synth e all’elettronica, Fabio Rizzo, e in generale lo studio in cui ho fatto il disco a Palermo, che è molto orientato verso queste sonorità. Io personalmente in quel periodo avevo molti ascolti di questo tipo, mi ero un po’ stufato dei dischi digitali, che suonassero freddi. Quello che si sente spessissimo in radio ormai è così, è tutto prodotto con i computer, è tutto gelido e artificiale, quasi. Volevo qualcosa che suonasse come i dischi che mi piacevano e che mi piacciono, quindi abbiamo avuto questo approccio qui, quello di suonare le cose, di farlo da band e di riprendere queste cose, di registrarle con degli apparecchi, con dei mixer, insomma con delle macchine che potessero dare quel tipo di suono, proprio perché analogiche. Pochissimo passava dal computer.
Che tappa rappresenta “Bellissima noia” nel tuo percorso?
Sicuramente un punto, io non so adesso cosa farò nel futuro. A volte dico continuo con una strada, ne prendo un’altra, non lo so. Considera pure l’età; dopo tre dischi che rappresentano quasi dieci anni della mia vita, dai venti ai trenta, mi sento un po’ come se avessi chiuso un piccolo cerchio, almeno quello della post adolescenza l’ho chiuso definitivamente, e quindi dentro di me mi ritrovo in un nuovo ambiente. Considero scuramente chiuso un certo discorso, ma non so quale potrebbe aprirsi in futuro, non so se questo futuro mi fa paura, mi preoccupa, forse un po’ sì; più invecchi e più preoccupa, sicuramente significa che è la fine di qualcosa, devo capire anche se è l’inizio di qualcos’altro.
C’è un brano a cui sei più legato in questo album?
Ti posso dire che il brano di cui sono più contento è “M.I.A.”, il brano conclusivo, quello di dieci minuti. E’ proprio un pezzo che ho voluto fortemente impostare in questa maniera, anche se sapevo essere fuorimoda per i canoni di oggi, in cui un pezzo non può durare più di 3 minuti perché tutto è veloce, perché per poter parlare dobbiamo ascoltare il più possibile…In realtà anche quella è una filosofia che trovo abbastanza inutile e deleteria per la cultura generale. Meglio ascoltare bene una cosa che ascoltarne male mille! Volevo fare un pezzo che avesse bisogno del suo tempo e sono contento che ci sia stato chi abbia avuto la pazienza di ascoltarlo e riascoltarlo, che poi non è nemmeno un pezzo di 40 minuti, ma di dieci, ed è assurdo che ormai oggigiorno anche quello sembri troppo. La soddisfazione è stata pensare che chi è riuscito ad entrarci si sia fatto un bel viaggio, che era un po’ quello che volevo raccontare. Poi in generale sono contento del disco, era più o meno quello che avevo in mente quando mi approcciai a registrarlo.
Mi racconti la cosa più assurda che ti è capitata in tour?
Fu quando caddi dal palco il giorno del mio compleanno. Ce ne sono tante di cose che ti succedono, alcune semplicemente non le posso raccontare, anche perché ogni concerto rappresenta un periodo di vita. Poi io ho fatto molti concerti, visto che sono al terzo disco, quindi addirittura alcune cose mi sfuggono e mi vengono in mente dei momenti particolari, ma alcuni è meglio non raccontarli. Quella fu proprio eclatante, fu assurdo, davanti a migliaia di persone, ho rischiato di morire sul palco il giorno del mio compleanno e, così su due piedi, un altro evento particolarmente eclatante non mi viene in mente, a parte le piccole cose che capitano, sempre strane e assurde.
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