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No Report

No Report – L’intensa esibizione di Mulatu Astatke all’Alcatraz

La mia professoressa di latino ai tempi del liceo soleva dire :”Se io, col mio dito indice, vi indicassi la luna, voi guardereste il dito e non la luna.”. Col passare degli anni ho apprezzato sempre più questa particolare chiave interpretativa. L’ho trovata adattabile ai contesti più disparati: la musica live è uno di questi.

Per l’interpretazione del live in questione è soddisfacente sia guardare il dito, che la luna. Perché dietro al concerto della leggenda ethno-jazz etiope Mulatu Astatke si sono celati un’infinità di dettagli più appartenenti alla poesia che alla musica. Coloro che sono riusciti a scrutare con attenzione dito e luna domenica 5 novembre all’Alcatraz a Milano (evento inserito nella chiave del festival JazzMi), hanno arricchito il proprio bagaglio di vita con un’esperienza di assoluto valore.

In superficie, si è trattato di un concerto dall’altissimo spessore culturale, intellettuale e tecnico. Mulatu è stato il primo musicista africano ad essere ammesso al college musicale di Berklee a Boston. Ciò che lo ha contraddistinto dai suoi colleghi jazzisti è stato il suo background culturale africano. La sua peculiare mescolanza di sonorità etniche e popolari con le sovrastrutture jazz e funky è una preziosa gemma nel territorio sconfinato della musica colta. La resa live del suo repertorio supporta a dovere questa tesi. All’Alcatraz Astatke e la sua piccola orchestra hanno macinato improvvisazioni imbastite su groove atipici per le orecchie occidentali. Nell’ecosistema africaneggiante dei brani sono state inglobate serrate sezioni ritmiche funky, lunghe improvvisazioni free-form e, talvolta, degli assoli che sfioravano il rumorismo. Tra questi ultimi sono stati degni di nota quelli degli strumenti a corda, che hanno sfatato a dovere il simpatico stereotipo dell’assolo di contrabbasso lungo e prolisso nelle composizioni jazz. Astatke ha interpretato magistralmente il ruolo del direttore d’orchestra e del polistrumentista. Nonostante sia stato il suo nome ad essere affisso ai manifesti del festival, ha saputo orchestrare una manifestazione corale, dove spesso e volentieri è stato lui stesso a cedere lo spotlight ai suoi compari strumentisti. Nei pochi momenti dove è stato protagonista, ha messo in mostra una classe infinita.

Dietro questo carico di informazioni tecniche, si è potuto scorgere un microcosmo di piccoli dettagli che hanno reso particolarmente bella questa esibizione. È stato sublime vedere le contenute smorfie di piacere degli strumentisti e i loro sorrisi quando qualche membro della band inanellava qualche lick particolarmente difficile o di gusto. È stato poetico vedere i vari livelli di coinvolgimento del gruppo: chi (come me) ascoltava ed osservava il quadro generale a bocca aperta, chi ondeggiava ad occhi chiusi, gli scroscianti applausi che sono giunti puntuali alla fine di ogni solo. Mulatu Astatke, beh, suscita tenerezza. Ha il volto scavato dall’età e un’espressione innocua e pacifica; la sua voce è rotta, ma estremamente comunicativa quando accompagna canticchiando a bassa voce i temi del vibrafono; quando annuncia i brani, dà l’impressione di essere un anziano saggio ricco di fascino e storie da raccontare. Musicisti e pubblico sono stati in assoluta sinergia dall’inizio alla fine e percepire questo concerto come mera esecuzione unilaterale della band verso il pubblico, è riduttivo. I presenti all’Alcatraz non hanno interpretato il ruolo di meri fruitori della musica, ma hanno contribuito a creare una realtà olistica e temporanea che ha reso vincente questo concerto.

Questo live può essere inserito, a tutto diritto, tra gli eventi topici di JazzMi. Un’ora e mezza abbondante di classe, sentimento, musica e poesia assoluti.
Ora sono debitore della mia professoressa di latino del liceo: è stato bello guardare il dito, ma commovente ammirare la luna.

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Batterista con un debole per i cibi pesanti e la lingua d'Albione. Amante di post-rock, post-hardcore e prog d'annata.

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