Il 22 Marzo è stato pubblicato su etichetta iCompany/luovo “Bicilette rubate”, il nuovo album di Esposito, prodotto da Riccardo “Deepa” Di Paola.
Ritroviamo Esposito, che già avevamo potuto apprezzare agli esordi, nella prova più matura, nel suo secondo lavoro, quello della conferma. Ascoltando l’album, comprendiamo da subito come in “Biciclette rubate” Esposito abbia fatto centro, confermando la propria identità e giocando con gli arrangiamenti che si trasformano brano dopo brano, e mostrando di puntare, quindi, sulla varietà dei suoni, che però non minano la tenuta generale del disco, che mantiene il marchio di fabbrica dell’artista grazie a dei testi che ci raccontano l’amore nell’era della precarietà, in un costante confidarsi col pubblico.
Premi play e la prima cosa che noti sono gli echi dei Beatles, che sembrano benedire questo album. “Bollani” è un pezzo straniante e bellissimo al contempo, le sue atmosfere sono affascinanti e il testo prende il cuore in una morsa. Già dall’incipit si capisce che Esposito, con “Biciclette rubate”, ha fatto il grande salto verso la musica di livello, quella ricercata che affonda le proprie radici nel passato, ma che sa modernizzarsi grazie a una dosata elettronica, che appare qua e là ad arricchire gli arrangiamenti. Un’evoluzione che era già in nuce nel precedente lavoro “E’ più comodo se dormi da me”, e che sentiamo riecheggiare in “Voglio stare con te”, un brano in cui le atmosfere cambiano completamente e si avvicinano più al cantautorato folk. L’album si trasforma di nuovo, affondando le mani nel rock elettronico (sonorità che ritroveremo anche in “Solo quando sei ubriaca”), nella titletrack “Biciclette rubate”, un brano alla Fabrizio Moro, che ci porta verso quei mondi stranianti che tornano a circa metà disco ne “La casa di Margò”, che rappresenta la sintesi dei primi due pezzi, portando in sé ognuna di quelle caratteristiche.
“Le canzoni tristi” è, insieme a “Bollani”, uno dei pezzi più belli di questo lavoro, che ci conduce verso il finale prima flirtando un po’ col pop di “Diego”, esperimento a dire il vero non troppo riuscito, salvo poi ritornare a quelle atmosfere malinconiche che tanto apprezziamo e che ritroviamo in brani come “L’amore cos’è”, altro pezzo riuscitissimo, passando infine per i suoni rarefatti di “Marina di Pisa” e chiudendo con “Le viole” e le sue linee melodiche al piano, che ci cullano come un carillon.
Ancora una volta Esposito ci propone un disco molto interessante, aggiungendo un tassello nel suo percorso di crescita, con testi che suonano come delle confessioni a cuore aperto e con una varietà musicale che mostra quanto la ricerca sia il vero obiettivo dell’autore. Che Esposito fosse un ottimo artista l’avevamo già intuito, adesso ne abbiamo la conferma e ne aspettiamo la consacrazione.
Recensione a cura di Egle Taccia