La storia artistica post-Smiths di Johnny Marr potrebbe benissimo essere sintetizzata come l’opera di un chitarrista dall’enorme talento, sempre prestato all’opera di altri grandi artisti e progetti, senza tuttavia mai riuscire a sfondare concretizzando qualcosa di completamente proprio.
Negli anni più recenti, nei quali purtroppo il suo ex compagno di gruppo Morrissey sembra esser stato risucchiato in una spirale di comportamenti e dichiarazioni folli che ne stanno seriamente minando la credibilità artistica, Mark si è tuttavia mantenuto artista tutto d’un pezzo, iniziando a produrre a partire del 2014 degli album a nome proprio sempre più apprezzati dalla critica fino a giungere nel 2018 a questo sorprendente “Call the Comet”, che potrebbe rappresentare il momento della meritata consacrazione come solista.
In quest’album siamo infatti di fronte ad un’artista che non si risparmia né suonando la sua iconica Fender Jaguar, né tantomeno dietro al microfono, con una voce appassionata e suadente, figlia dell’età degli eighties e – quasi inevitabilmente – degli Smiths.
Non commettiamo l’errore di trovarci di fronte ad un artista che ci propone furbamente un lavoro puramente retrò: Marr, grazie al suo sound inconfondibile, unisce e attualizza in maniera assolutamente personale le sonorità Brit Pop più classiche con brillanti momenti elettronici di ispirazione New Order ed altri intrisi di un’atmosfera oscura di prima epoca darkwave, che molto ci hanno ricordato il sound dei The Cure.
Il risultato di quest’opera compositiva è un album piacevole dalla prima all’ultima canzone, un saggio di rock ballabile e fantascientificamente positivo, ispirato dalle opere dello scrittore J.G. Ballard che, a differenza di altri artisti, rifiuta una visione completamente negativa della realtà attuale, pur riconoscendo l’incomprensibilità della situazione nel Paese natio ai tempi della Brexit.
“Call the Comet” è difatti un album piacevole e coinvolgente dall’inizio alla fine, in cui il bravo chitarrista ci propone una serie di brani cha alla fine possiamo definire puramente rock, dotati di uno splendido sound monolitico, plasmato da chitarra, tastiere e da un’ottima opera di produzione governata dallo stesso.
Così, dopo che i due furbi single “Hi Hello” e “Walk into the Sea” hanno inevitabilmente catturato l’attenzione del pubblico con i propri spudorati ammiccamenti rispettivamente allo stile di Smiths e Stone Roses, il pubblico si trova di fronte ad un’opera di grandissima sostanza: se l’opener “Rise” con il suo riff massiccio è destinata a diventare un anthem nei concerti di Marr, “The Tracers” e “My Eternal” sono due canzoni figlie di un’ispirazione dark che ormai manca da troppo tempo ai pur sempre immensi The Cure; come non menzionare poi “Day In Day Out” e “Actor Attractor”, due grandissimi pezzi che rimandano ancora agli Smiths in un senso positivo che valorizza l’opera di Marr, poiché riescono a mostrare anche ad un pubblico di poca memoria chi fosse la spina dorsale del gruppo dal punto di vista musicale, senza far rimpiangere in alcun modo la voce di Moz.
L’album regge bene per la sua intera durata di quasi un’ora, grazie alla vena ispirata di Johnny Marr e della sua affiatata band. “Call the Comet” si è rivelato in definitiva un titolo felice e ben augurante per quest’ultimo lavoro del chitarrista britannico, autentica metafora di una luce intensa ed improvvisa nel panorama musicale del 2018, del quale rimarrà senza dubbio fra i lavori da ricordare.
A questo punto, non resta che andare a sentire questi pezzi dal vivo, fra qualche mese, certi che anche lì il verdetto sarà di un successo unanime.
Tracklst
01. Rise
02. The Tracers
03. Hey Angel
04. Hi Hello
05. New Dominions
06. Day In Day Out
07. Walk Into the Sea
08. Bug
09. Actor Attractor
10. Spiral Cities
11. My Eternal
12. A Different Sun