McCartney è tornato ed apre un nuovo capitolo. McCartney III trasforma il periodo di lockdown riuscendo a trarre da giorni così oscuri nuova energia ed ispirazione per un lavoro dall’aspetto nuovo, discrepante rispetto al precedente, ma nello stesso tempo dal marchio di fabbrica inconfondibile.
Questo nuovo album di Sir Paul ripercorre i precedenti capitoli McCartney e McCartney II e, soprattutto, si dimostra all’antitesi di Egypt Station, disco avventato nel senso migliore del termine e moderno, pubblicato appena due anni prima e acclamato dalla critica. McCartney III non è un seguito che si interseca strettamente nella trilogia, ma è un risultato composto da tante piccolezze che lo rendono probabilmente una delle migliori sorprese di quest’anno.
Come tradizione impone, il disco è un lavoro eseguito interamente da Macca, dall’inizio alla fine. È lui stesso a occuparsi di cantare e suonare ogni strumento, dalla chitarra ai synth. Si potrebbe quasi definire un’opera “casalinga”, frutto di una clausura forzata a causa della pandemia e trascorsa in studio a scrivere testi e comporre musiche.
Il risultato è una sorta di storia amalgamata da effetti particolari, sonorità che ricordano quelle testate nel periodo “The Fireman”, e innovazioni che, seppur semplici, amplificano e arricchiscono la melodia di ogni traccia. Il suono caldo della chitarra acustica, presente in quasi tutti i brani, viene alternato da diversi sintetizzatori e linee di basso che modellano l’atmosfera folk a cui tende l’album.
L’inizio è folgorante, immediato, deciso: Long Tailed Winter Bird è un brano ipnotico, ripetitivo ed incredibilmente immersivo nei suoi primi due minuti, dove rende al massimo nella sua resa acustica ora secca, ora delicata. Più consuetudinarie al contempo Find My Way e Pretty Boys, che riesumano alcuni ricordi dei primi album di McCartney del periodo ’70.
Attraverso Women and Wives il fingerpicking si evolve in un sound maggiormente blues, facendo eco allo stile di Lead Belly, dal quale trae ispirazione. Tonalità blues che lasciano spazio ad una più rockeggiante Lavatory Lil, prima di assaporare il lungo medley Deep Deep Feeling. Proprio questo è probabilmente il punto più alto di sperimentazione dell’intero album, in cui troviamo una sovrapposizione di diverse chitarre che si stratificano al punto di ottenere quello che lo stesso Paul definisce una vera e propria orchestra.
The Kiss of Venus è il capolavoro dell’album: una serie di accordi che incantano sin dal primo ascolto, un rinnovato incontro con Sgt. Pepper’s che non delude, racchiudendo in tre minuti un ritmo ed un’armonia barocca, conciliata soprattutto dall’utilizzo del clavicembalo. Deep Down è l’esposizione delle capacità polistrumentali di McCartney che, in una semplice melodia, convoglia sintetizzatori Moog e brass, armonica, chitarra, batteria e pianoforte. Il risultato è un viaggio mentale, sei minuti di alienazione che terminano con una reprise di chitarra acustica, che accompagna la delicata e bucolica When Winter Comes.
Il piatto che l’ex Beatle serve col suo nuovo album omonimo è fresco, capace di far rimanere attivo e concentrato dall’inizio alla fine l’ascoltatore, con un livello medio della scrittura molto alto. La scorrevolezza di McCartney III porta l’opera ad essere elogiata ed apprezzata. Un lavoro che, pur non avendo la pretesa di essere un capolavoro, si rivela la chiave con cui l’artista entra nel nuovo decennio più deciso che mai, con la sua storia e con il piglio di chi non deve dimostrare nulla.