Il nostro tempo è una dimensione divisa a metà, sospesa su una linea invisibile che separa il nostro presente da un futuro che non esiste perché non ne riusciamo a scorgere i segni premonitori. Proprio in questo coacervo si insinua l’inquietudine di non essere in grado di ottenere risposte su quello che sarà di noi, neanche dalla fede in qualcosa di superiore o, comunque, di infinito. Hugo Race è un artista che ha sempre puntato sull’intensità della scrittura e sulle profondità delle pieghe esistenziali, sui quei chiaroscuri che rendono visibili le cicatrici ed solchi del tempo sulla pelle come segni di vita vissuta. In questo senso, possiamo dire che la musica di Hugo Race è attraversata da un’autentica verità, in una certa misura fuori dal comune proprio per il suo modo di intendere l’arte come interpretazione di una poetica della fragilità e nello stesso tempo esorcismo da quei demoni che in fondo non ci abbandonano mai. Potremmo azzardare che nel percorso di ricerca e crescita di Hugo Race si individuano gli stessi intimi anfratti blues di Mark Lanegan e l’attitudine autoriale di Nick Cave, tutte qualità che Race ha saputo fare proprie con una sua specifica individualità.
Il doppio nuovo album “Star Birth – Star Death” è un lavoro complesso, concepito per collocarsi nel solco di un dualismo tra luce e oscurità, entrambe intrise di un’aura di spiritualità obliqua che ricerca la salvezza partendo dalle viscere della terra, allo stesso modo delle radici di un albero che si imbevono nelle profondità. “Star Birth” è la superficie visibile di una stella destinata ad esplodere, che ha il suo contraltare nel versante non illuminato, ovvero in “Star Death”, appendice strumentale rispetto all’album e che si pone come un suo sviluppo logico. “Star Birth” e “Star Death” sono musiche di un rituale catartico, diventano ipnosi per far fuoriuscire le anime viaggiatrici intrappolate nel flusso delle vite passate, blues desertico e apocalittico che accarezza certe desolazioni alla Bohren & der Club of Gore. I musicisti del collettivo The True Spirit (Bryan Colechin, Chris Hughes, Nico Mansy, Brett Poliness e Michelangelo Russo) accompagnano Hugo Race come sodali fidati per un viaggio interstellare tra solitudini e disastri, ma anche attraverso cieli siderali illuminati dalle superfici irregolari di lune che governano le maree.
L’opener Can’t Make This Up ha un incedere trip hop di stampo bristoliano, la successiva 2Dead2Feel ha un pulsare melmoso che ricorda le asperità di “Blues Funeral” di Mark Lanegan, mentre nel corpo di Embryo (una delle perle dell’album) batte un latente cuore maliano alla Tinariwen a cui è stato impiantato un futuristico esoscheletro sintetico. Dopo il tremolante decadentismo di Heavenly Bodies, troviamo l’ambientazione noir di Only Money ed il blues con venature mitteleuropee di Holy Ghost. Ma il capolavoro del disco è Expendable, gioiello intarsiato con misura e potenza in cui i fiati costruiscono una imponente scena immaginifica con derive cinematiche.
L’opener di “Star Death” è il vento gelido di Divided che soffia su una terra spoglia, la stupefacente Love Is The Energy è un flusso sonico ambient che lambisce le lande degli Stars of the Lid, mentre Virus Of The Mind è un trip kosmische, così la magnifica All We Have Is Love (altro zenith del disco) ha un respiro grande che porta ad immaginare spiragli per mondi mai visti. Il concept siderale in “Star Death” è ancora più marcato e lo si riscontra in Only Honey che Can’t Make Shit Up in cui le onde dei synth sembrano riprodurre uno straniamento extraorbitale.
Per lo spessore e la maturità del suono “Star Birth – Star Death” è una delle cose più interessanti di questo nefasto 2020, per chi scrive un album che dovrebbe essere inserito nel gioco delle consuete classifiche dei dischi migliori dell’anno. Di certo, una tappa fondamentale nel percorso di un artista che stupisce ancora una volta per la qualità di una produzione che si attesta sempre a livelli altissimi. Opera affascinante.
Giuseppe Rapisarda