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No Report – Cantagiro 1967: e Catania divenne capitale del Pop

Sono passati cinquant’anni da quel giugno del 1967, in cui Catania divenne, improvvisamente e quasi senza volerlo, la capitale italiana del Pop. A quel tempo un evento musicale – ce n’erano pochi, Sanremo, il più importante, Castrocaro e Ariccia per le voci nuove, il radiofonico “Un disco per l’estate”, qualche festival minore – catturava fortemente l’attenzione del pubblico, lo stuzzicava con la musica e lo blandiva con un gossip impalpabile e ingenuo.

Per il 21 giugno dell’A.D. 1967 era stata fissata nel capoluogo etneo la data di partenza del Cantagiro, il tour ad imitazione di quello ciclistico attraverso lo Stivale promosso dal simpatico e intraprendente Ezio Redaelli. Per quasi una settimana prima, la città si è animata delle carovane delle varie scuderie (leggi “case discografiche”) e degli arrivi dei vari artisti partecipanti. Luoghi topici, con lo stadio di Cibali come sede di prove e dello spettacolo iniziale, erano la piazza Giovanni Verga e lo spazio antistante il grande albergo dove alloggiavano i big e l’Hotel Costa di via Etnea, che oggi non esiste più e che accoglieva gli altri.

Adolescente, studente che dal ginnasio, alla fine dell’estate, sarebbe passato al liceo, già colpito dalla passione per la musica che poi sarebbe diventata una delle cose più importanti della mia vita, avevo, rispetto ai miei coetanei, la fortuna di conoscere poliziotti e vip che mi facevano intrufolare nei luoghi off limits, dove ho avuto modo di entrare in contatto con quel mondo che, di lì a qualche anno, mi sarebbe stato familiare e con il quale avrei avuto contatti professionali (ma anche umani). Ed i ricordi, tutti molto gradevoli, sono tantissimi.

Mi sono munito di due rudimentali libretti degli autografi, uno ricavato da una rubrichetta tascabile, su cui la mia sorellina minore aveva già raccolto gli autografi dei Rokes – lei aveva avuto anche la fortuna di farsi fotografare in mezzo a Shel, Johnny, Bobby e Mike in procinto di partire dall’aeroporto di Fontanarossa – l’altro da alcuni fogli protocollo, tagliati e fissati con una cucitrice. Oggetti che conservo gelosamente da allora e che spesso vado a sfogliare o a mostrare agli amici.

Per quattro o cinque giorni ero dentro l’uno o l’altro albergo, a caccia di autografi, cartoline promozionali (anch’essere conservate), strette di mano, chiacchierate. Non conoscevo ancora il conduttore ufficiale, il catanese Nuccio Costa, che pochi anni dopo sarebbe diventato uno dei miei amici più cari e che ricordo sempre con grande tenerezza, era una persona bellissima. Non mi è capitato nemmeno d’incontrare il direttore di gara Walter Chiari, che avrei intervistato qualche tempo dopo, scoprendone la grande carica umana e la simpatia.

Non ho mai avuto la possibilità di beccare i divi più accreditati, il blindatissimo Adriano Celentano, per esempio, o Nicoletta Strambelli in arte Patty Pravo, o Rita Pavone, che negli anni successivi avrei intervistato tantissime volte, sempre con piacere, ma posso vantare innanzitutto un bellissimo incontro con un esordiente Mino Reitano, del quale divenni accompagnatore ufficiale: gli feci conoscere la mia città e lo portai a fare diverse commissioni, fra cui un taglio di capelli e una seduta di manicure (con noi c’era pure il chitarrista dei Ribelli, Giorgio “pocaluce” Benacchio, con i suoi occhiali da supermiope). Non mi è mai più capitato di incontrare il gradevolissimo Mino e, di conseguenza, non ho mai avuto la possibilità di avere qualcuna delle tantissime fotografie che facemmo insieme, in giro per Catania, con la sua macchinetta istantanea. Un documento ancor più interessante, se ne fossi venuto in possesso, che avrei custodito fra le cose care.

Altra serata memorabile fu quella che passai in salotto con Bobby Solo e Ricky Shayne: Bobby mi fece ascoltare alcuni brani accompagnandosi con la chitarra e facendomi capire che non era vero ciò che si diceva su di lui, cioè che la sua voce fosse artefatta e costruita. Prima di fare un’immersione nella Catania by night, il primo mi regalò una cartolina con la dedica autografa, il secondo firmò il mio libretto.

Non mi sono mai filato, invece, un giovane concorrente del “girone b” (avrebbe trionfato ad ogni tappa, fino alla finale) e alla prima occasione gliene ho chiesto personalmente scusa: era napoletano, si chiamava Gianni Calone e presto sarebbe esploso con il nome d’arte di Massimo Ranieri per diventare un artista assai apprezzato che dura magnificamente nel tempo.

Nei libretti ci sono gli autografi dei concorrenti del “girone a”, oggi si direbbe dei “big”, quello senza competizione e senza classifica: Dino, Gianni Pettenati, Nico Fidenco, Nicola di Bari, Mario Zelinotti, il palermitano Carmelo Pagano, i Marcellos Ferial, Gino Santercole, nipote di Celentano, Wilma Goich e il marito Edoardo Vianello (pimpante e solare lei, già rude come un orso lui). La Goich partecipava alla manifestazione con una bella canzone di Luigi Tenco, scomparso nel gennaio precedente, intitolata “Se stasera sono qui”, Fidenco, in coppia con una certa Fulvia, cantava la versione italiana (non usavamo ancora il termine “cover”) di “Somethin’ Stupid”, già portata al successo da Frank Sinatra in coppia con la figlia Nancy.

Con Reitano e Ranieri, nel “girone b” (cito solo quelli di cui possiedo almeno il documento autografo) figuravano il mitico Mauro Lusini, che l’anno precedente aveva firmato per Gianni Morandi l’hit “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones”, il duo Jonathan & Michelle, i celentaniani Ico Cerutti (“L’uomo del banjo”) e Pilade (col suo vero nome, Lorenzo Pilat ha firmato alcune delle canzoni più note del secondo Novecento), Emilio Roy e Roby Crispiano (oggi artisti di culto per gli appassionati), Le Pecore Nere, di cui ho rivisto il leader, Kiko Fusco, divenuto produttore. Delle Pecore Nere, che si sciolse in quello stesso anno, conservo una rarissima cartolina con gli autografi di tutti i componenti.

Il “girone c” aveva dentro i “complessi” tanto gettonati in quel momento storico. E qui i nomi di culto si moltiplicano a dismisura. Anche le band straniere cantavano rigorosamente in italiano, secondo la tendenza dell’epoca. C’erano i liverpoolliani Motowns – “Prendi la chitarra e vai” – con il capelluto Lally Stott, ricercatissimo dai fan. Lally, negli anni Settanta, avrebbe messo su un altro famosissimo gruppo, The Middle of the Road, per poi morire prematuramente, nel 1977, in un incidente stradale. Dei Motowns faceva parte anche Mike Saint Logan, padre dell’attrice Veronica Logan, protagonista di numerose fiction della nostra televisione. Altre formazioni di grido The Sorrows, The Renegades con il biondissimo cantante svedese Kim Brown leader (è scomparso nel 2011), i Primitives, con Mal voce guida per il grido di “Yeeeeh!”, il Patrick Samson Set.

Tra gli italiani, i Camaleonti, i Dik Dik, i Funamboli, i Rokketti, i Girasoli, i Giganti (i quali crearono scandalo con il testo della loro canzone “Io e il presidente”, affermando, press’a poco, “oggi io non sono nessuno, domani sarò presidente della Repubblica…” in un’interpretazione della Costituzione italiana in verità assai corretta.

Altra formazione mitica era quella dei Ribelli, che in quel momento si stava affrancando dalla sudditanza a Celentano per imporsi come formazione di punta che agganciava il pop alle istanze del Rhythm&Blues, che a sua volta entrava nelle grazie dei giovani ascoltatori. Un musicista di gran razza come Natale “Befanino” Massara, un batterista dalle mille risorse come Gianni Dall’Aglio e una straordinaria voce quale quella del compianto Demetrio Stratos avrebbero dato nuovi stimoli e nuove sollecitazioni alla musica negli anni a venire.

A creare scandalo furono pure i Nomadi con “Dio è morto”: la canzone firmata da Guccini, che infastidiva i cosiddetti bempensanti (sarebbe meglio dire “i rompiscatole”. Il mio incontro col mitico complesso venne coronato da un autografo del grande Augusto Daolio che sbozzò con rapidi tratti, accanto alla firma anche un proprio autoritratto e aggiunse il nome, con i suoi colleghi (tranne uno), su una cartolina promozionale. Tranne uno, dicevo, che allora non riuscii a bloccare: si trattava di Beppe Carletti, che, incontrato nel 1996, dopo ventinove anni turò il buco con firma e data. E, in chiusura di concerto, mi trascinò sul palco a cantare in coro con tutti gli altri “Io vagabondo”.

Cinquant’anni fa: i ricordi e le nostalgie di un adolescente? Direi di no, piuttosto i pezzi di una storia che è anche collettiva (in seguito avrebbe attratto con forza i miei interessi personali e professionali) e che merita di essere conosciuta.

Nello Pappalardo

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