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No Review – Gaudi e le vibrazioni cosmiche di “Magnetic”

Che Gaudi fosse uno dei producer più preparati nella scena dub ed elettronica internazionale lo dice un curriculum in cui campeggiano cospicue ed importanti collaborazioni con artisti delle più disparate estrazioni musicali e ben sedici album alle spalle, il tutto senza considerare la quantità impressionante di contributi in dischi altrui. “Magnetic” è il diciasettesimo album del musicista bolognese, pubblicato due anni dopo “In between times (The remixes) e a tre da “Dub, Sweat & Tears”, entrambi usciti per la label Six Degrees Records. L’approdo alla RareNoise Records, etichetta nata sotto l’egida di una ibridazione musicale ad ampio spettro, avviene nel migliore dei modi, grazie ad un lavoro in cui si avverte tutta l’esperienza maturata da Gaudi nell’arco di decenni di sperimentazioni, di ricerca della polisemia sonora e di analisi delle sue infinite combinazioni, giungendo a valicare coraggiosamente gli steccati di genere.

Quest’ultimo progetto scaturisce dalla rielaborazione di elementi musicali già presenti nel catalogo della RareNoise Records, deframmentati e ricomposti in una nuova forma. Per fare ciò Gaudi ha interagito, a volte anche a distanza, con musicisti del calibro di Bill Laswell, Colin Edwin (Porcupine Tree), Steve Jansen (Japan), Ted Parsons (Killing Joke), Roger Eno, Eric Mouquet (aka Deep Forest), Pat Mastelotto (King Crimson), Eraldo Bernocchi, Buckethead (Guns’n’Roses, Bootsy Collins, Iggy Pop), Nikolaj Bjerre (Lamb), solo per citarne alcuni. In un’intervista di qualche anno fa, Melissa Auf der Maur, bassista di Hole e Smashing Pumpinks, disse che nell’economia di una band il basso rappresenta la figura materna, ovvero quell’humus di fertilità senza cui un brano non esisterebbe. In questo senso, la presenza nell’album di ben sei bassisti sembrerebbe avvalorare tale tesi, se consideriamo come ogni singola traccia di “Magnetic” tragga linfa vitale da un sostrato ritmico pulsante su cui si sviluppa successivamente l’intera struttura melodica.

L’opener 30hz Dub Prelude è un dub dal cuore nero e malinconico che riporta agli Almamegretta di “Lingo”, Opus 12, No. 7 ha una efficacissima sezione ritmica costituita da Shanir Ezra Blumenkranz al basso e da Roberto Gualdi a cui si unisce un certosino lavoro di electronics. In Memories in my Pentagram nella linea del basso di Jamie Saft sembra riecheggiare il mood di Jah Wobble, mentre Electronic Impromptu in E-Flat minor ha un’anima in equilibrio tra Oriente ed Occidente: sulla piattaforma ritmica costruita da Bill Laswell e Steve Jansen il piano di Alessandro Gwis incide note dolenti su uno sfondo dai drappeggi delicatamente noise. Dopo la corsa a perdifiato di Modular Rondò, che segna l’ottimo drumming del batterista dei Lamb Nikolaj Bjerre, arriviamo alle lacerazioni psichedeliche dal retrogusto bristoliano di Die Ballade Von Frosch con Pat Mastelotto e Colin Edwin che definiscono una futuristica ambientazione distopica. Alle melanconiche ed ondivaghe vibrazioni di Epilogue Leitmotif il compito di chiudere la tracklist.

Magnetic” è un album in cui si avverte chiaramente la maturità di un artista che non teme di alzare l’asticella per confrontarsi con un mare magnum musicale in cui perdersi sarebbe stato facile come cedere alle lusinghe delle sirene. Eppure, Gaudi ha dimostrato di saper gestire una enorme quantità di rimandi con grande sensibilità e di rielaborare gli svariati modelli di riferimento con il giusto rispetto, pur aggiungendovi la propria personalità artistica. Cosa del tutto rara oggi.

Giuseppe Rapisarda

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Avvocato, appassionato di musica. Da quando il padre gli regalò la cassetta di "Outlandos d'Amour" dei Police non ha più smesso di comprare dischi. Sa essere concreto anche se, di tanto in tanto, si rifugia in un mondo ideale sospeso tra le canzoni di Neil Young e le divagazioni oniriche dei romanzi di Murakami.

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