“Esisteva un modo per fregare il Potente una volta, e si chiamava rock’n’roll” diceva Jack Black ai suoi alunni in un passaggio di School of Rock. Ecco, diciamo che gli Algiers l’hanno preso talmente sul serio questo spirito da aver dedicato ogni singola fibra del loro nuovo album “The Underside of Power” a combattere il Potente con denti, bastoni e chitarre.
Si chiama proprio “The Underside of Power”, è uscito il 23 giugno, ed è il secondo album capolavoro degli Algiers. Non è affatto esagerato dire che con quest’album la band di Atlanta, fino a due anni una fa perfetta sconosciuta, ha composto uno dei migliori album – se non non il miglior album – dell’anno.
Questo è potuto succedere perché il lavoro degli Algiers ha qualcosa di viscerale. Qualcosa che riesce a strappare le radici del rock (e prima ancora del blues) e a piantarle nel mondo di oggi. La sorpresa è scoprire che quelle radici, fatte di rabbia, fatte di canti degli schiavi neri strappati dall’africa e gettati nei campi di cotone, fatte di ribellione e solidarietà, attecchiscono ancora.
La band, che ha preso il nome da una delle città che più ostinatamente lottarono contro la dominazione coloniale, con “The Underside of Power “ha voluto sporcarsi le mani accusando il potere viziato e parlando agli oppressi. La carica politica nelle tracce dell’album è fortissima. Anzi, le tracce realizzano un disegno completo della società americana degli ultimi 10 anni, da Black Lives Matter, agli scontri con la polizia nelle città del sud, a Donald Trump.
Tutto parla dell’oggi in una maniera estremamente intelligente e poetica.
Cry of the martyrs è un inno. È un inno alla rivoluzione che riconosce se stessa nella gente. È un inno con cui F.J. Fischer – cantante e frontman del gruppo – lancia il proprio messaggio spirituale eppure marxista. Fischer ci urla in faccia di eleggere i nostri martiri, perché – ci sembra dire – siamo già stati sconfitti, quando Gesù è stato crocifisso sul Golgota così come siamo già stati sconfitti a Ferguson negli scontri con la polizia. Siamo stati sconfitti perché noi tutti siamo coloro i quali portano avanti il mondo trascinandolo sulle proprie gambe. Ma siamo solo noi che – pur ricordando i martiri – dobbiamo smettere di piangere e portare avanti il mondo.
Quando queste stesse riflessioni sfociano in sonorità più profonde gli Algiers cambiano volto. Così nasce Cleveland – dedicato a Timir Rice, il dodicenne nero ucciso dalla polizia nell’omonima città – la cui linea è ironicamente strutturata intorno all’aria di Peace be Still un famoso canto gospel che diventa però un canto rabbia nera, profonda, cieca. Spaventoso all’interno della traccia l’elenco dei morti afroamericani, uccisi dalla polizia, affiancato dal coro “we’ re coming back”. Più che di una canzone è una mano sulla coscienza.
Ma tutte tracce dell’album meriterebbero una recensione a sé per la profondità dei temi e per la rabbia del sound. Anche Animals che con tempi da punk hardcore e una chitarra acidissime riesce a graffiare chiunque l’ascolti. Nato come invettiva contro Donald Trump e la normalizzazione di questo fatta dai media, ci parla – forse parafrasando T.S. Eliot – di “tutti gli scheletri seppelliti che adesso sono germogliati”: la rabbia che diventa speranza.
Oltre alle liriche incendiarie degne delle rassegne letterarie, anche il sound dell’album è veramente un fiume in piena. Il miscuglio geniale e distruttivo con cui gli Algiers si candidano a cambiare la musica è un elettro-soul che associa intensissime linee di basso soul, cori gospel, ad un groove che ingoia. Il tutto ovviamente elettrificato e possibilmente distorto.
Ecco allora che tutto “Underside of Powers” diventa un inno alla potenza. Potenza che è riuscita ad esprimersi al meglio solo attraverso una produzione perfetta. Questa è stata affidata alla mano di Adrian Utley (ex Portishead), il cui intervento ha dato forma ad un album rivoluzionario. La mano del produttore c’è, e si vede, sia nelle architetture dei pezzi, che nella dinamicità e nella profondità di un suono perfettamente strutturato.
Insomma, sound fatto di pennate di chitarra in stile acid rock, tempi da hardcore (merito dell’ex batterista dei Bloc Party Matt Tong, unitosi alla band), giri di basso articolati e cori celestiali creano un intruglio esuberante, che non è possibile descrivere. Allora, proprio perché è impossibile descriverli, non resta che ascoltarli.
Ne vale veramente la pena.
Andrea Costa