Se siete i classici nostalgici che, come me, rimpiangono i tempi in cui le chitarre erano le principali protagoniste dei dischi, se ogni tanto anche voi avete bisogno di tuffarvi nel metal e nelle sue derivazioni, allora verrete letteralmente rapiti dai primi minuti di “The Stage”, il nuovo album degli Avenged Sevenfold, disco pubblicato a sorpresa e annunciato durante un concerto diffuso in streaming dal tetto della Capitol Records Tower di Hollywood. L’album si snoda su un concept, un racconto fantastico di un mondo dominato dalla tecnologia, con i suoi pro e contro, concept che è il punto da cui partire per comprendere il contenuto dell’album, la disomogeneità dei brani, i vari cambi di ritmo e generi che si rintracciano nell’opera, la cui chiave di lettura sta appunto nel considerare quei suoni come la colonna sonora della storia che ci raccontano.
“The Stage” vede alle bacchette Brooks Wackerman, noto per la sua militanza nei Bad Religion, la cui presenza dà una marcia in più ai brani, scandendo il ritmo con una potenza rintracciabile in pochi, il cui ingresso in band potrebbe aver influenzato anche indirettamente il cambio di direzione intrapreso con questo lavoro, che finalmente può considerarsi come il disco della maturità.
“The Stage”, forse a dispetto delle critiche ricevute dal precedente “Hail to the King”, sembra voler dare una risposta forte ai detrattori della band, presentandosi come un lavoro ben fatto, certamente molto curato in ogni singolo dettaglio, pieno zeppo di messaggi disseminati nei vari brani.
In barba alle logiche discografiche piazzano un’apertura che supera gli otto minuti e una chiusura di oltre 15, tra l’altro una suite, composizione tanto cara a un certo rock psichedelico, perfetta sintesi di tutti quei generi che affiorano nel disco e che vanno dal metalcore, al trash, al prog, con qualche accenno punk, di cui possiamo godere durante l’ascolto, spesso spiazzante con cambi improvvisi di genere e di tempo e strumenti inattesi che arrivano a sopresa, come la chitarra classica sul finale di “The Stage” o i fiati di “Sunny Disposition”.
“Angels” è una ballata bellissima, che però si colloca nella parte centrale, quella forse meno convincente dell’album, dove vengono riprese sonorità già sentite e abusate in passato, ma ancora troppo recenti per aver nostalgia di riascoltarle. Fortunatamente tutto comincia a ridefinirsi da “Higher” in poi, che nella sua intro mi ha riportato ai Muse, sensazione che ho percepito anche in “Exist”, dove i riferimenti alla band inglese sono disseminati in ogni dove, anche se si tratta più di un approccio che di vere citazioni, usate da spunto per intraprendere un discorso tutto proprio che ci porta, tra vari crescendo, verso la rimonta finale, distesa sul tappeto di archi della bellissima e sognante “Roman Sky”, per concludere in una suite di oltre 15 minuti dal titolo “Exist”, che convince sia musicalmente che poeticamente, svelando il concept che regge il disco, nonostante qualche momento di calo. L’album si chiude in una vera e propria esplosione finale, con qualche rullata di batteria che tanto ricorda il mondo punk.
“The Stage” è un esempio di come le critiche possano essere il pane di cui si nutre una band per potersi migliorare, avere il coraggio di staccarsi dalle aspettative del proprio pubblico e rivolgersi verso territori inesplorati. Se il punto di partenza era rispondere alle accuse per la virata troppo mainstream del precedente album, certamente in questo lavoro la band statunitense si apre verso discorsi che di mainstream hanno ben poco, e lo fa quasi sempre in maniera convincente, sventolando una finalmente raggiunta maturità artistica, magari non propriamente unitaria, ma ricca di azzardi che prima non era stata capace di compiere.
Egle Taccia