“Is this the life we really want?”
Roger Waters
Release date: 02.06.2017
Spendere delle parole sul nuovo disco di Roger Waters“Is this the life we really want?” non può che partire da questa premessa che rischia di minare l’oggettività della recensione: Waters è un gigante.
A 25 anni dal suo ultimo lavoro da solista, con “Is this the life we really want?” l’ex bassista dei Pink Floyd si ferma, lancia uno sguardo alle sue spalle, e fa il punto sulla vita, sul tempo, sulle possibilità tradite. Se fosse permessa un’analogia, questo disco sta a Roger Waters come “Le Occasioni” sta a Eugenio Montale: un lavoro realizzato in un’età pienamente matura, quasi avanzata, in cui l’autore medita su ciò che avrebbe potuto essere e su ciò che non è stato, sulle occasioni che il tempo gli ha fatto lasciare indietro ed ha fatto appassire.
La struttura dell’album è nettamente divisa in due, così come lo stesso animo dell’autore sembra frantumato tra muri, amori e nostalgie. E allora, la prima parte ci parla di un Roger Waters pubblico, meditabondo, e scettico sul futuro, che annaspa nel passaggio da un passato limpido ad un avvenire già corroso dal dubbio e dalla paura.
A monte, un discorso esistenziale, ma anche politico. Il lato esistenziale emerge palese da Broken bones, ossa rotte, che si apre con Waters che guarda il cielo conscio della propria nullità (sometimes i feel like a bug on the wall), e conclude con un ammonimento, a chi crede che il passato sia fatto di bullshit and lies (stronzate e bugie). Da altre tracce, invece, emerge l’animo politico e polemico di Waters. Su tutte, la canzone che che dà il nome all’album Is this the life we really want?, che si apre con una cappella delle parole di Donald Trump, e che sembra una riflessione sulla post-verità.
In contrapposizione, la seconda parte del disco è più intima. Un’intimità che è la naturale conseguenza dello sconforto che la prima parte dell’album procura. Waters smette di guardare al tutto e si concentra su sé stesso e sugli affetti. Da questa riflessione prende forma l’ottava traccia, The most beautiful girl: un pezzo – sembra – dettato dalla nostalgia di casa e di un passato che non esiste più; così come prende forma anche anche la stupenda Wait for her, leggera e profonda allo stesso tempo.
Il suono che pervade l’album è limpido e potente. Interessante la produzione di Nigel Godrich, già produttore dei Radiohead e Paul McCartney, cui va il merito di essere riuscito a contaminare il sound dell’ex Pink Floyd, senza cambiarlo radicalmente. Infatti, Waters, pur accettando la contaminazione, ha mantenuto pienamente il suo carattere. Sono numerose “le rime” tra le canzoni dell’album e alcuni pezzi intramontabili dei Pink Floyd. E’ impossibile non vedere la somiglianza tra l’attacco di Smell the roses e quello di Have a cigar; come è impossibile non pensare a One of these days ascoltando Picture that. Ma a prescindere da questo continuum nel segno della tradizione, non si può rimproverare nulla all’autore, che anzi consegna un lavoro pieno e potente, frutto di una piena maturità.
Insomma, quello che Roger Waters propone non è una sonorità nuova, ma un nuovo discorso, riuscendo appieno nel suo intento.
Nota conclusiva. L’ultimo verso dell’ultimo pezzo dell’album recita “a lifetime of regret” (una vita di rimpianti). Ecco, tralasciando la valutazione personale dell’autore, si può tranquillamente confessare a tutti i lettori che ad ascoltare questo disco rimpianti non se ne provano.