Ci sono recensioni in cui trovare le parole per portare avanti un discorso non è semplice. A volte questo accade per una totale mancanza di stimoli e contenuti, altre per il motivo opposto, per un’esplosione di storie, impressioni, dettagli che si avvicendano all’interno di un album. Ecco, Stranger Fruit appartiene alla seconda tipologia, invero più unica che rara.
Facciamo un passo indietro, per chi fosse rimasto chiuso in un bunker senza contatti con il mondo esterno negli ultimi due anni. Zeal & Ardor è una delle new sensation della musica estrema a livello mondiale. Sbucato fuori letteralmente dal nulla nel 2016 dalla mente del compositore, cantante e polistrumentista svizzero Manuel Gagneux, questo progetto nasce (su un forum on-line) da un’idea ucronica: e se il metal fosse stata una musica africano americana? Appropriazione culturale, riscrittura delle fonti, fantasia cripto-filologica. Questa è la genesi di Devil Is Fine, primo album (EP? Demo?) pubblicato per caso da Gagneux su internet, che ha fatto il giro del mondo attirando su di sé un’attenzione smodata. A buona ragione: si tratta di una commistione assolutamente inedita, stramboide, eretica e blasfema – verso Dio e verso i metallari – di heavy music (perlopiù black metal) e tradizione africano americana delle origini, vale a dire spirituals, gospel, blues. Arricchito da qualche follia elettronica, Devil Is Fine è stata un’uscita semplicemente spiazzante, a cui sarebbe stato impossibile non dare un seguito. Così, a due anni di distanza, esce Stranger Fruit.
Devil Is Fine era tutt’altro che semplice e immediato, anzi c’era fin troppa roba dentro, messa lì forse un po’ a caso, senza una visione d’insieme – assente per forza di cose, data la natura inizialmente estemporanea del progetto. Dopo un buon numero di ascolti si accende una lampadina: qua c’è un’idea forte, c’è classe, c’è talento, manca solo la giusta forma. Ecco, iniziamo col dire che questo limite è già stato superato. Il titolo del nuovo album riprende il classico “Strange Fruit” di Abel Meeropol, portato al successo da Billie Holiday, brano di forte protesta contro i linciaggi dei neri negli USA divenuto un vero inno del movimento per i diritti civili. Se scomodi un elemento culturale di tale portata è certo che la visione d’insieme, l’idea portante non ti manca.
L’ascolto dei brani conferma quest’ipotesi. Finalmente Gagneux ha trovato la quadratura del cerchio, sia a livello di suoni (curati da un certo Kurt Ballou) che, soprattutto, sul piano compositivo. “Gravedigger’s Chant” è un blues moderno, catchy ma tremendamente oscuro, e funziona benissimo, perché la vocalità e le melodie sono semplicemente irresistibili – non a caso è stato il primo singolo tratto dall’album. “Servants”, una chiamata alle armi e alla rivolta, e “Don’t You Dare” (che i più attenti già conoscono, grazie a un bel live in studio che gira da qualche tempo sul web) incattiviscono le atmosfere con un suono imperioso, mostrando che anche il doppelgänger metallico di Gagneux è cresciuto e plasma la materia in maniera più cosciente. L’alternanza fra le due anime è costante, quasi esasperata, ancora una volta spiazzante, ma messa in atto con una destrezza da manuale. E di momenti molto diversi, ma altrettanto bene amalgamati, nel corso della tracklist se ne contano a dozzine: “Fire Of Motion” è una bordata metallica che spezza il collo, “Row Row” unisce danze del sud a headbanging, alzando i bpm e rivelandosi fra i migliori brani del lotto, “Ship On Fire” pare uscire da un disco dei Batushka geograficamente ricollocati, “You Ain’t Coming Back” strizza l’occhio alla modernità nera dell’RnB, supportata però da una straniante chitarra in tremolo picking. Queste note sono per forza di cose didascaliche e riduttive: non abbiamo menzionato un altro singolo pauroso come “Waste”, né gli stranianti intermezzi strumentali, né la conclusiva “Built On Ashes”, brano da brividi lungo la schiena. C’è, insomma, una quantità di carne al fuoco incredibile, che in mani meno abili farebbe collassare il disco su se stesso, lo renderebbe pretenzioso, forzatamente nuovo e originale. E invece Zeal & Ardor centra l’obbiettivo.
Potevano esserci tanti modi diversi per mettere in atto l’idea, molte combinazioni possibili, varie direzioni sonore verso le quali condurre il lavoro, ma Gagneux ha scelto costantemente le migliori. Lo dimostra il fatto che l’album, alla stregua del quadrato del Sator, può essere letto da ogni lato: l’idea funziona e palesa una personalità invidiabile, la musica stessa è composta con perizia in ogni suo dettaglio, e funzionano anche se considerate singolarmente. Non resta quindi che avvicendarsi nell’ascolto di Stranger Fruit, che consigliamo come uno degli highlight di questa annata musicale in senso ampio.