Se il Passato è come una stanza, siamo solo noi a decidere se chiudere o meno a chiave la porta, così come di lasciarla solo socchiusa. Rientrare per riempire i polmoni di quegli umori nascosti è una necessità non sempre dettata dalla nostalgia. E’ possibile che ci sia semplicemente bisogno di chiudere una volta per tutte quei cassetti lasciati aperti e rimettere ordine tra le foto e tra gli appunti di viaggi fatti oppure di quelli programmati e falliti. Tra le cose, capita anche di trovare vecchie registrazioni, nastri di canzoni notturne completate ma scartate o, ancora, testi a metà.
Ci piace pensare che il processo di recupero delle undici tracce di “Senza Eredità” sia andato proprio così. Umberto Maria Giardini si è lasciato alle spalle Moltheni, sviluppando un percorso artistico che non lo rinnega ma si arricchisce di complessità e densità nel suono, rimanendo fedele alla propria sensibilità. Eppure, ritornare indietro nel tempo è un processo catartico che può giungere nel momento della vita di maggiore consapevolezza e visione del futuro, senza alcuna malinconia o senso di perdita. Per fare questo Umberto Maria Giardini ha deciso di riprendere pezzi scritti negli impetuosi anni Novanta a nome Moltheni e risuonarli in modo lucido e senza alcun intento di celebrare quello che non c’è più.
Difficile dire cosa significhi prendere in mano un disco a firma Moltheni a distanza di undici anni da “Ingrediente Novus”, percepire un certo clima emotivo riconoscibile da chi ha vissuto quegli anni così inconsapevolmente incerti. In queste undici tracce c’è tutto il folle fervore consumato tra Bologna e Catania: l’amicizia con Francesco Virlinzi, con Carmen Consoli, l’ingresso nel roster della Cyclope Records e l’inizio di una carriera irriducibile per coerenza e libertà. “Senza Eredità” è un album che fa i conti con il passato solo per chiuderlo, non per una forma di pacificazione, né per rilanciare antiche istanze, ma solo per assecondare un senso di aggiustamento prima di ritornare a guardare alle cose del presente.
Brani come La mia libertà, Estate 1983, oppure la meravigliosa Spavaldo entrano nel profondo e rimangono impressi come immagini che all’improvviso si ricompongono sulla superficie di una polaroid sbiadita; Se puoi, ardi per me, Ester, Nere geometrie paterne o Tutte quelle cose che non ho fatto in tempo a dirti sono canzoni riconoscibili nella loro fragile umbratilità e che Moltheni ha deciso di salvare dal rischio di rimanere sospese nell’oblio. Per il modo con cui è stato concepito “Senza Eredità” è un lascito senza successione, ma proprio per questo ancora più prezioso nella sua unicità. Anche perché, in questi tempi così oscuri, abbiamo scoperto di avere ancora bisogno di canzoni come queste che ci ricordano quello che siamo stati.
Giuseppe Rapisarda