«“Keys of mine” è un gioco di parole: “i mie amici” in inglese si dice “Friends of mine”, ma loro sono le chiavi di questo disco, dedicato a loro. Da qui il titolo. In italiano invece questo gioco di parole non era possibile, e il titolo sta semplicemente ad indicare che “oltre le quinte” del teatro di tutti i giorni che mi vede attore e spettatore esiste tutto ciò che si può trovare ascoltando questo LP». Luca Bash
E’ questo il modo con cui Luca Bash ci introduce all’ascolto del suo album, “Oltre le quinte” (in inglese “Keys of Mine”) dedicato ai suoi amici musicisti che l’hanno accompagnato in questa avventura, composto da 15 brani e pubblicato sia in italiano che in inglese senza una direzione artistica, in maniera sequenziale, chiedendo ad ogni musicista che vi ha partecipato di arrangiare e registrare in remoto secondo l’ispirazione del momento e il proprio istinto musicale.
Iniziando ad ascoltare “Oltre le quinte” di Luca Bash si intuisce un gusto spiccato, che fa riferimento a un certo modo di fare musica ormai dimenticato, cosa che da un lato può apparire apprezzabile, dall’altro, canzone dopo canzone, rischia di compromettere l’ascolto. L’album sembra un disco scovato su uno scaffale polveroso di uno di quei piccoli negozi di musica che erano tanto di moda negli anni ‘80, disco magari registrato su musicassetta, che ricorda in qualche passaggio lo stile di Mario Venuti. Nei brani si possono distinguere fiati, assoli di chitarra, neanche troppo urlati, un gusto e un modo di cantare che appartiene alla nostra tradizione e che racconta la quotidianità fatta di ore sul web in cerca di un’uscita con gli amici, alla ricerca di un po’ di empatia davanti a una birra. Un concetto spesso ripetuto, che potrebbe essere il filo conduttore del disco, è quello dell’apatia che attanaglia le nostre vite e non ci permette di esprimerci.
L’album ha qualche venatura prog rock, ma si muove principalmente su arrangiamenti blues con qualche influenza jazz. Come anticipato, non è stato realizzato un lavoro di produzione artistica su “Oltre le quinte” e questo è il limite più evidente dell’album, che purtroppo risente di una scaletta non troppo ben congegnata e della mancanza di una scrematura, necessaria ed essenziale, che avrebbe permesso un ascolto più fluido, nonostante l’idea di fondo sia apprezzabile. Delle due versioni ho preferito quella in inglese, dove la musicalità della lingua si fonde meglio con i suoni.
“Tu non sai” è uno dei brani che spiccano insieme a “Tre e non più di tre” che ha un bel groove, ma è con “Al posto mio” che finalmente l’album raggiunge il suo picco, in uno dei pezzi più completi del lavoro.
“Oltre le quinte” è un disco che consiglierei a un pubblico adulto, più abituato a un certo tipo di musica, che oserei definire colta e raffinata.
Recensione a cura di Egle Taccia